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345 giorni al 7 luglio

Izuku tornò davvero all'officina di Katsuki.

Non tutti i giorni, si sentiva uno sfigato al solo pensiero, ma ogni tanto. Era come attratto da una forza che non riusciva a spiegare, come se fosse legato ad una corda che lo strattonava sempre più verso quel dannato meccanico.

Arrivava senza avvisare, rimaneva in silenzio e lo osservava lavorare. A volte disegnava senza che lui nemmeno se ne accorgesse, era talmente assorto che non notava minimamente il modo in cui Izuku studiava ogni suo muscolo per riportarlo in schizzi disordinati sul proprio blocco da disegno.

Katsuki, d'altro canto, cercava di ignorare la sensazione di calore che gli solleticava la nuca quando pensava a quegli occhi smeraldini che lo fissavano alle spalle.

Era più distratto del solito quando c'era lui, rischiava di fare errori che non si era mai concesso il lusso nemmeno di immaginare e la cosa lo mandava totalmente fuori di testa.

«Invece di startene lì impalato a fare niente, perché non mi passi il Torx?»

L'assenza di reazioni alle sue spalle lo portò a girarsi, Izuku si guardava intorno con aria persa.

«Ti passo cosa?»

Sembrava spaesato, le sue guance si tinsero leggermente di rosso mettendo in risalto la spruzzata di lentiggini sul suo naso e Katsuki sbuffò a metà tra una risata e un verso di disapprovazione. Disapprovazione nei confronti del proprio stomaco, che a quella vista si era contratto come se qualcuno lo avesse preso a calci.

«Dio, sei inutile», commentò il biondo indicando un cacciavite dalla punta a stella vicino a lui. «Dovrei chiamarti Deku.»

Izuku storse il naso; nonostante non fosse il più romantico dei soprannomi, la sola idea che lo chiamasse in modo diverso dagli altri lo fece sentire stranamente speciale.

«E tu sei un bambino, che ne so io dei cacciaviti?», gli passò l'attrezzo con un sorriso, osservò le sue guance che si gonfiavano appena. «Dovrei chiamarti Kacchan!»

«Ah? Mica ho cinque anni!»

«Non sembra.»

Passarono il resto del pomeriggio a battibeccare scherzosamente su quei nuovi soprannomi, alla fine come sempre Izuku lo salutò senza preavviso.

«Devo andare, mi vedo con un amico stasera.»

Katsuki annuì appena. Gli sarebbe piaciuto chiedergli di vedersi anche loro, una sera. Magari bere una birra, fare due chiacchiere senza attrezzi e macchie di grasso, conoscersi meglio e stupirsi delle cose che avevano in comune. Parlavano davvero poco, di lui sapeva solo il nome.

Izuku lo guardò in attesa di una reazione; una parte di lui voleva proporgli di unirsi a loro. Voleva capire chi fosse, cosa gli piacesse fare nel tempo libero, come gli piaceva bere il caffè la mattina e quanti tramonti avevano visto quegli occhi per rubarne il colore in modo così spiccato.

Eppure, ogni volta si fermava.

Non aveva alcun senso avvicinarsi a qualcuno, magari affezionarsi a lui, quando la realtà dei fatti era che non avrebbe mai potuto amare nessuno più di quel suo sogno senza volto.

«Allora, ci vediamo!»

Sollevò una mano e si incamminò verso la stazione, Katsuki tornò con la testa su un motore a cui stava lavorando senza più riuscire a concentrarsi.

Abbandonò gli attrezzi poco dopo, il rumore metallico contro il pavimento gli diede uno strano senso di pace mentre ripensava all'ultima relazione che aveva concluso.

Written in the starsWhere stories live. Discover now