31

1.3K 133 103
                                    


La morte.

Un concetto che è di base il più grosso paradosso mai esistito: è astratta, impalpabile ed invisibile come la nebbia ed allo stesso tempo terribilmente concreta nel dolore che infligge alle persone.

Fa paura, è la forma più pura d'ignoto, e forse per questo ci si è interrogati spesso su cosa ci fosse dopo.

Alcuni hanno trovato le loro risposte nella fede costruendo un mondo, un "dopo" che fosse la giusta ricompensa per una vita piena di complessità, un paradiso che accogliesse le anime per donare loro la grazia e la felicità eterna.

Altri, meno credenti, vivono con la consapevolezza che dopo non ci sia niente e che la morte sia come cadere in un vuoto in cui niente è più reale. Si esiste, semplicemente, fluttuando come pallidi globi di luce in un'oscurità senza fine.

Per Atlas la morte era un ponte.

Sentiva il momento in cui il suo corpo smetteva di esistere e la sua anima passeggiava nel limbo che lo avrebbe condotto alla sua prossima esistenza.

Attraversava viali alberati, cieli limpidi e campi sterminati. Lasciava che il vento gli scompigliasse i capelli, e ad ogni passo la sua anima abbandonava la sua forma per adagiarsi delicatamente nel corpo di un bambino appena nato.

Era pronto a ricominciare da capo, seppure con l'amaro in bocca e una rabbia cocente.
Perché sì, lo sapeva e lo sentiva, lo aveva trovato e lo aveva perso. 
Eppure, era diverso.
Ricordava i suoi occhi brillanti, il calore delle sue mani, il sapore delle sue labbra e quei capelli perennemente disordinati in cui amava affondare le dita. 

Ricordava la sua voce, ancora più la sua risata. Ricordava i brividi sulla pelle quando gli sussurrava qualcosa all'orecchio, i crampi allo stomaco quando lo faceva suo.

Lo ricordava chiaramente, come fosse ancora reale.

Respirò a fondo; l'aria nei polmoni era stranamente dolorosa.

Nessuno ha ricordi del parto, nemmeno lui; in genere iniziava ad avere consapevolezza di sé stesso intorno ai quattro anni come ogni bambino. Iniziava a ricordare i borghi del regno, il sorriso buono di sua madre, le mani grandi di suo padre.

Gli tornavano alla mente i pomeriggi a passeggiare lungo la via delle botteghe con il panettiere che gli regalava sempre un dolce caldo con la crema e la sarta che cuciva piccole bambole di stoffa per lui.

Era tutto confuso con le esperienze del presente, con la nuova madre che finiva comunque per amare e la vita che cercava di rendere in qualche modo unica in quel mare di banali ripetizioni.

Si guardava le mani minuscole, le stringeva e le rilassava contando le dita fin dove riusciva per la sua età e pensava che sì, quella sarebbe stata la volta buona.

E forse fu questo che gli fece capire che qualcosa non andava, perché alzando il braccio si rese conto che erano mani da adulto quelle che stava stringendo e che il movimento faceva davvero troppo male.

«Tesoro! Tesoro! Sono qui, la mamma è qui!»

Una voce familiare gli rimbombò nella testa per posarsi sui suoi nervi come un balsamo lenitivo, il tocco di dita gentili fece capolino sulla pelle sensibile e d'istinto sgranò gli occhi in cerca di risposte.

Lo raggiunse una luce accecante smorzata appena da una figura che troneggiava sopra di lui. Nel pieno delirio vide sua madre, la regina, quella che per prima lo aveva amato sopra ogni cosa.

I capelli verdissimi, gli occhi profondi e quel sorriso in cui si rifugiava ogni volta che aveva paura.

«M-mamma...» la voce gli uscì a malapena, gli fece male alla gola e si costrinse a deglutire nel tentativo di avere un po' di sollievo.

Written in the starsDove le storie prendono vita. Scoprilo ora