4. Pioggia, polvere e nastro isolante

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Tac.
Tac.
Tac.
Con brevi e regolari intervalli di tempo, alcune gocce scendevano giù da un angolo del soffitto e si infragevano su di una vecchia lastra di vetro, abbandonata sul pavimento e ricolma di scarabocchi. A Netville pioveva davvero molto spesso, non era affatto inusuale che le perturbazioni avvolgessero la città per diversi giorni, prima che un raggio di sole facesse capolino tra le nuvole; quella sera, però, sui palazzi si abbatté un temporale in piena regola.
Eva singhiozzava, mentre con una scarpa disegnava forme astratte sulla polvere che ricopriva il pavimento. Cercava di consolarsi così, con un gesti semplici che le facevano pensare che tutto andava bene e che non avrebbe dovuto preoccuparsi per la sua vita; sfortunatamente, il suo disegnare sulla polvere non le impediva affatto di annullare il bruciore che proveniva dai suoi polsi legati tra loro dietro alla schiena, o dai continui brividi di freddo che attraversavano il suo corpo.
Tac.
Tac.
Tac.
Il suono della pioggia stava diventando quasi nauseante per la rossa, che ormai da ore intere non udiva nient'altro che questo; era rimasta completamente sola in quell'edificio in rovina, immersa nel buio della notte e impossibilitata a muoversi. I due individui con cui era riuscita a comunicare, Smiley e Jack, avevano avuto la premura di avvolgere uno strappo di nastro adesivo sulle sue labbra prima di andarsene via, in modo che nessuno nel vicinato avrebbe potuto sentire i suoi lamenti.
Eva non si era mai sentita così tanto disperata come in quel momento, niente per lei poteva essere più terribile di sentirsi totalmente in balia degli eventi e non avere alcuno strumento per evitare il peggio. Dal momento che i suoi aguzzini avevano lasciato quel posto al calar della sera, poteva solo ipotizzare che si trattasse di una sorta di punto di ritrovo, ma che nessuno di quei malviventi viveva effettivamente nel vecchio palazzo; considerato questo, la ragazza non poteva far altro che chiedersi se l'indomani li avrebbe visti ritornare, o se avevano deciso di legarla e lasciarla lì a morire di fame e di freddo.
Non era neanche sicura che sarebbe riuscita a sopravvivere a quella singola notte.
Quello che una volta doveva essere stato il vano ascensore, ora riddotto ad un foro profondissimo dal quale era possibile scrutare il fondo, incanalava il vento gelido che proveniva dall'esterno, emettendo suoni raccapriccianti che di tanto in tanto interrompevano il silenzio. Attraverso le vetrate davanti a lei, Eva riusciva a scorgere alcuni appartamenti illuminati e poteva udire il rumore di qualche auto di passaggio; a nulla, tuttavia, erano serviti i suoi disperati tentativi di attirare l'attenzione di qualche passante chiedendo disperatamente aiuto.
Nonostante il dolore alla schiena, la fame e il freddo paralizzante, la ragazza fu costretta a trascorrere la nottata immobile, seduta sul quel pavimento gelido e sporco, pregando che tutto sarebbe tornato come prima. Si era detta che se quegli squilibrati avevano deciso di legarla, allora erano in qualche modo interessati a lei; e per quanto questo pensiero la facesse rabbrividire, significava che non sarebbe morta di fame perché sarebbero tornati da lei.
Sospirando sollevò la nuca, fino ad appoggiarla delicatamente contro alla parete dietro di lei; il suo sguardo vacava sulle mura spoglie e sui frammenti di vetro sparsi sul pavimento, mentre qualche timida lacrima con un percorso disordinato attraversava la sue guance.
Si sentiva in colpa.
Terribilmente in colpa.
Aveva deciso di recarsi in centro per bere qualche drink; nulla di sbagliato, eppure se non lo avesse fatto adesso non si sarebbe trovata in questa assurda situazione.
Stringendo i denti ripensò al cadavere di quella donna, massacrata e uccisa lungo una delle vie più frequentate, e losche, di Netville. La memoria la riportò all'assassino, quel folle che celava la sua identità nell'ombra di quel cappuccio; aveva visto alcuni dettagli del suo volto, ricordava bene quella sua grottesca cicatrice.
Ancora non aveva capito in quale tipo di guaio si era cacciata, ma sapeva bene che tutto quanto era iniziato proprio dall'incontro con quel ragazzo: l'aggressione, il sonnifero, l'arrivo degli altri due rapitori.
Tutto era iniziato ai bordi di quella maledetta strada.
Con le mani tremanti ancora bloccate dietro alla schiena, Eva strinse i pugni chiudendo nel contempo le palpebre; dopo essere stata aggredita e trascinata in quel posto, non aveva più avuto alcuna interazione con il ragazzo incappucciato, e non sapeva dire se questo fosse positivo oppure no.
Fu solo la stanchezza a permetterle di addormentarsi su quel pavimento, dopo ore intere spese a fissare le gocce di pioggia che scivolavano giù dalle vetrate; quando la ragazza schiuse gli occhi, provò un immenso sollievo nel realizzare che adesso la stanza era illuminata dalla prima luce del mattino.
La protezione di un'insegna lì vicino si rifletteva parzialmente sulla parete della stanza, penetrando attraverso le vetrate ricolme di polvere e aloni scuri; una pioggerella leggera scendeva giù dal cielo, totalmente sommerso da una fitta coltre di nuvole scure. Era riuscita a sopravvivere, almeno per il momento.
Rannicchiandosi su se stessa la ragazza riuscì a trovare un po' di conforto, ma rizzò la schiena immediatamente quando un ben distinto suono di passi giunse fino alle sue orecchie: una serie di lievi tonfi, il fruscio di un fiato affannato, il ticchettìo di qualche oggetto metallico.
Qualcuno stava salendo le scale del palazzo.

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