35. La fine della tempesta

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Tra quelle quattro mura che erano state l'inferno e il paradiso di Jeff aleggiava il suono assordante di un silenzio impenetrabile, rotto unicamente dal respiro affannato che faceva espandere e ritrarre il suo petto ritmicamente. Restò immobile in piedi davanti al cadavere di Eva per un tempo indefinito, impossibile stabilire se si fosse trattato di minuti oppure di ore.
Si sentì svuotato di quel poco di umanità che era riuscito a conservare.
Completamente sopraffatto dalla bestia che aveva dentro di lui.
Lasciò scivolare il coltello via dalle dita insanguinate e udì il frastuono generato dalla lama che rimbalzava contro al pavimento; attorno al corpo della ragazza si era allargata una enorme pozza di sangue scarlatto che lui a causa dell'oscurità non poteva vedere, ma della quale riusciva a distinguere chiaramente il fetore.
E quello stesso odore nauseabondo di cui per anni aveva amato riempirsi le narici adesso gli appariva esattamente come ciò che era sempre stato realmente: una cosa orripilante. 
Disgustosa.
Spregevole.
Udì l'intensità dell'acquazzone all'esterno ridursi gradualmente fino a trasformarsi in una pioggerella leggera, parallelamente all'angoscia che si stava amplificado e premeva sempre più forte contro al suo petto.
Il ragazzo si chinò a terra, sbattendo le ginocchia contro al pavimento insanguinato, e si protese sul corpo immobile di Eva quasi del tutto celato dell'oscurità; meglio così, pensò, in questo modo non avrebbe dovuto vedere in che modo lo aveva ridotto.
La poveretta aveva ricevuto oltre cinquanta coltellate distribuite su tutte le parti del corpo; molte di queste si erano però concentrate sul suo viso, su quello sguardo di cui si era innamorato e che aveva desiderato non dover vedere mai più.
Si distese a terra accanto a lei, incurante del sangue appiccicoso che stava imbrattando la sua felpa, abbracciando ciò che restava di quel povero corpo ormai ridotto a brandelli di carne, in silenzio.
Non potè fare a meno di pensare che alla fine il velo nero che rivestiva la sua anima aveva avuto la meglio, costringendolo con i peggior sotterfugi a distruggere ciò che aveva amato. Poi, d'un tratto, il guasto elettrico fu ripristinato e la lampadina appesa al soffitto riprese a illuminare la stanza in un lampo.
Ma Jeff strinse le palpebre più forte che poteva.
Non voleva vederla, non voleva vedere cosa aveva fatto all'unica persona al mondo che avesse mai amato davvero.
Pianse silenziosamente e non gli importava di non sembrare virile, di apparire debole o stupido; si lasciò trasportare dalla disperazione che sentiva e che questa volta non sarebbe stata cancellata da una striscia di coca o da una bottiglia di wiskey. Su quel pavimento, forse, era morto anche lui.
-Mi dispiace...- mormorò. Attese diversi minuti prima di trovare la forza per aprire gli occhi e lo fece lentamente, permettendosi di mettere a fuoco ciò che aveva intorno solo qualche centimetro alla volta.
E a quel punto fece un balzo indietro, con la bocca spalancata.
-Ma...Ma...-.
Strisciando sul pavimento come un verme si allontanò dal corpo disteso a terra con il cuore in gola. Non c'era più sangue, nessuna ferita, nessun lembo di pelle a penzoloni, il corpo non era neanche più quello di Eva.
-Ma cosa cazzo...-.
Una donna lo osservava immobile con la guancia premuta sul pavimento, come se si fosse appena svegliata da un lungo sonno. Aveva una folta chioma di capelli castani raccolti in un perfetto chignon e diverse profonde rughe a percorrere il suo volto rilassato, vestiva in modo semplice ma aveva alcuni gioielli preziosi attorno al collo e sui polsi. Ella aveva un aspetto chiaramente trasandato, sciupato, che le accollava almeno una decina di anni in più rispetto a quella che doveva essere la sua vera età.
Jeff balzò in piedi, privo di fiato. Si guardò intorno più volte come se stesse cercando di capire cosa fosse accaduto ma poi, con tanto stupore quanto sgomento, tornò a osservare l'intrusa che nel frattempo si stava mettendo a sedere con innaturale disinvoltura.
-Ma.. Mamma-.
La donna sollevò il viso con un movimento stanco, accennando un lievissimo sorriso che sulle sue labbra tese e screpolate apparve tutt'altro che felice. -...Jeff- mormorò sottovoce.
Il moro fece un altro passo indietro, calciando accidentalmente la una lattina vuota abbandonata sul pavimento. -Io non... Non capisco...-.
Sentì i suoi occhi inumidirsi, sebbene non avesse la più pallida idea di cosa stesse provando in quel momento. Sapeva soltanto che di certo quella proiezione non poteva essere davvero sua madre, per il semplice fatto che lei era morta ormai diversi anni prima; l'allucinazione di Eva si era semplicemente trasformata, come se la sua mente stesse cercando il modo per distruggerlo più crudelmente possibile.
Erano tante le cose che avrebbe voluto dire a quella donna adesso, tante le conversazioni che aveva immaginato di poter avere con lei ma che era finito per fare solo con sé stesso; e adesso che sua madre si trovava dritta davanti ai suoi occhi per un attimo crebbe che finalmente avrebbe potuto chiederle scusa e dirle tutto ciò che per una vita aveva taciuto.
Ma, almeno questa volta, capí che non avrebbe avuto senso.
-Tu... Tu non sei reale- mugolò, aggrappandosi con una mano alla parete come se d'un tratto avesse difficoltà a reggersi in piedi. -Non lo era lei, non lo sei neanche tu- continuò. 
In tutta risposta la donna si limitò a sorridere e annuire con un ripetuto movimento del capo, senza mai staccargli gli occhi di dosso. In quel suo inquietante silenzio, con quel semplice sguardo fisso, sembrava quasi volergli dire che tutto sarebbe andato bene.
Ma Jeff non potè sopportare oltre.
Si guardò intorno un paio di volte, afferrò frettolosamente una giacca per proteggersi dal freddo e la infilò, poi si catapultò fuori dalla porta sbattendola rumorosamente dietro alle sue spalle.
-Questa stronzata deve finire, adesso!-.

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