8. La città disperata

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Un fascio di luce bianca dritta sul viso, che fa sbattere le palpebre più volte e restringere le pupille.
Nella bocca ancora il sapore della vodka, ora mista alla polvere sul pavimento.
Totalmente disorientato, Jeff si risvegliò dal suo sonno un numero indefinito di ore più tardi, quando il sole del primo mattino stava salendo in cielo attraverso i profili imponenti e grotteschi dei palazzi di Netville; cumuli di cemento, lamiere e vetri rotti che ospitavano una densità di popolazione due volte superiore a quella teoricamente consentita.
Netville era una città disperata, e disperati erano i suoi abitanti; anche Jeff, nonostante la sua sfacciataggine, non faceva di certo eccezione.
Mugolando e massaggiandosi la faccia il ragazzo si alzò goffamente in piedi, impiegando una lunga manciata di secondi per riuscire a capire dove si trovasse e perché fosse lì; non era del tutto sicuro di essersi lasciato troppo andare con l'alcool ancora una volta, ma la nausea e le fitte di dolore provenienti dal suo ventre suggerivano che fosse proprio così. Lentamente si massaggiò le tempie, mentre ancora con lo sguardo vagava lungo le mura spoglie di quel vecchio palazzo disabitato, cercando di ricomporre uno a uno tutti i ricordi più recenti che conservava e provando a dar loro un filo logico.
Adesso ricordava.
Aveva tentato di fare a botte con Smiley per via di quella ragazza, quella con i capelli rossi; a pensarci adesso, non aveva la più pallida idea di quale fosse il motivo per cui se l'era presa così tanto. Non era di certo la prima vittima che condivideva con lui, in realtà era piuttosto affascinato dal modo in cui quello psicopatico con la mania della chirurgia riuscisse a conciare un corpo senza privarlo della vita; perché mai quella sgualdrina avrebbe dovuto fare differenza?
Con le mani affondate nelle tasche e la testa ancora aggredita da una violenta emicrania, il ragazzo dai capelli neri percorse in totale solitudine il corridoio che conduceva fino al vano delle scale, per poi calare il cappuccio sulla testa e addentrarsi per le vie della città, con il capo chinato e le orecchie ben attente; le strade di Netville non erano mai sicure, tantomeno in orari come quello, e neanche un tipo come lui poteva dirsi del tutto al sicuro.
Jeff era dannatamente stanco e ora che aveva recuperato la lucidità mentale si sentiva, come ogni volta, decisamente più depresso di quanto non fosse stato prima di iniziare a bere; aveva soltanto bisogno del suo divano, del silenzio assoluto e magari di qualcosa da mettere sotto ai denti. Quella tristezza prima o poi se ne sarebbe andata, esattamente come era arrivata; così, mantenendo un'andatura sostenuta e guardando fisso avanti a sé, il moro si diresse dritto verso il suo appartamento evitando di proposito di attraversare le strade più popolate e preferendo invece i vicoli bui che era solito utilizzare come scorciatoie.
Proprio a causa dell'altissima densità di popolazione e della diffusa povertà, le abitazioni a Netville erano pressoché tutte di piccole dimensioni, tanto che alcuni appartamenti erano stati ottenuti innalzando muri all'interno delle case stesse in modo da suddividerle in più unità abitative, tutte rigorosamente strette e talvolta quasi del tutto prive di finestre. La gente del posto si era adattata a quella realtà spietata nel migliore dei modi, tanto da riuscire a sopravvivere in un ambiente ostile e sfruttare quei pochi metri quadri di vita privata adattandovi ogni necessità personale.
L'appartamento di Jeff si trovava all'interno di uno degli edifici più imponenti della città, che nelle vicinanze del centro si innalzava per oltre dodici piani; osservandolo dal basso ci si trovava davanti a un enorme mostro di cemento e calcestruzzo, alternato da lunghe finestrate di vetro opaco oltre il quale era possibile scorgere fioche luci gialle delle lampade. L'edificio ospitava un numero indefinito di famiglie, alcune delle quali si erano ricavate dei miseri rifugi anche al piano seminterrato, dove si trovavano i contatori della luce ed i garage; erano in molti, infatti, ad essersi appropriati di alcuni spazi interni all'edificio in modo del tutto abusivo, e questo valeva anche per Jeff.
Il suo piccolo appartamento si trovava al quarto piano ed era composto da due sole stanze: un piccolo salotto che ospitava esclusivamente un logoro vecchio divano, un tappeto sgualcito e una vecchia tv a tubo catodico; e un bagno di forma rettangolare, così stretto che non era letteralmente possibile spalancate le braccia mentre ci si trovava all'interno. Non aveva una cucina, né un letto degno di questo nome; in effetti, più che un appartamento il suo era un rifugio sicuro in cui si intrufolava per schiacciare un pisolino o magari per tirare su dal naso un po' di robaccia senza venire disturbato da nessuno.
Quella mattina, poggiando il palmo sulla maniglia arrugginita del portone principale la percepì fredda molto più del solito; il ragazzo si apprestò a varcare l'entrata in fretta, ma solo dopo aver dato una rapida occhiata alle sue spalle per assicurarsi di non essere stato seguito da qualche altro malavitoso che si aggirava nella zona. All'interno dell'imponente palazzo era presente un ascensore, ma ormai da anni era completamente fuori uso e nessuno dei condomini se ne preoccupava in modo particolare; così, massaggiandosi le tempie nel tentativo di ridurre la sua emicrania, Jeff si apprestò a salire la rampa di scale fino a raggiungere il quarto piano.
Qualcosa non andava.
Anche se non era in grado di spiegarsi il perché, sentiva dentro di sé che stava per accadere qualcosa e il tappeto davanti alla porta del suo appartamento sembrava suggerire che non si trattasse di niente di buono: era stato spostato lateralmente e un angolo era piegato, come se qualcuno lo avesse scansato prima di entrare. Il moro trattenne il fiato per pochi istanti, ispezionando la porta con estrema attenzione nel tentativo di notificare un qualsiasi cambiamento; la serratura, tuttavia, non sembrava essere stata forzata in alcun modo.
Innervosito dalla situazione e impaziente di assicurarsi che il suo covo non fosse stato violato da qualche sconosciuto, infilò nervosamente una mano nella tasca dei pantaloni e ne estrasse un coltello a serramanico: non si trattava di certo della sua arma preferita, ma era la più comoda da portare con sé quando gli capitava di dover allontanarsi per troppo tempo.
Senza il minimo segno di esitazione Jeff infilò rapidamente la chiave e sbloccò la serratura, per poi spalancare la porta con un feroce calcio ben assestato, mentre pensava che chiunque si fosse permesso di violare la sua proprietà avrebbe presto pagato con la sua stessa vita.
D'un tratto strinse le mandibole, mentre i suoi occhi chiari si spalancarono dallo stupore.
Il pugno sinistro stretto sul manico del coltello iniziò a tremare lievemente, in risposta a un sentimento di forte agitazione che sembrava intento a peggiorare.
-Cosa... Cosa cazzo sta succedendo..?- balbettò, con la voce spezzata dell'agitazione.
Proprio davanti a lui, seduta a terra sopra al vecchio tappeto che decorava quel misero monolocale, vi era quella ragazza dai capelli rossi della quale neanche conosceva il nome; lo guardava con uno sguardo fisso, docile, assente mentre tentava di coprire il suo corpo seminudo avvolgendo le braccia sul petto. I capelli le scendevano dolcemente sulle spalle tremanti nascondendo qualche piccolo neo sulla sua schiena, mente il suo giovane volto era decorato da una delicatissima spruzzata di lentiggini, che parevano opera di un pittore. Aveva le labbra strette, le palpebre spalancate e un'espressione preoccupata sul volto.
-Cosa ci fai qui, eh?!- sbraitò ancora Jeff, affrettandosi a richiudere la porta alle sue spalle. -E rispondimi, cazzo!-.

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