35. Un regalo speciale

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                                                                              "Clown", Emili Sandè

"Hai preso tu la mia spazzola?". Marty irruppe nella stanza di prima mattina con i capelli umidi ed il fono nella mano destra. E direi anche un'espressione piuttosto arrabbiata. Finii di infilarmi il maglione pesante ed allacciai le scarpe.

"No, affatto. Usa quella dei comuni mortali, Marty", proposi ridendo.

"Sai che non posso! Ho i capelli fragili, mi si spezzano facilmente... ", borbottò imbronciata.

"I capelli fragili? Che diavolo significa?"

"Andiamo, aiutami a cercarla!", esclamò frustrata. Sbuffai ed uscii dalla mia camera, per dirigermi verso il bagno in fondo al corridoio. Lei camminava a passo deciso davanti a me come una furia.

Ogni tanto se ne usciva con qualcosa di diverso: c'era stato il periodo degli occhi troppo "rotondi", dove provava a mettersi l'eyeliner per cercare di non darlo a vedere, o il periodo del naso troppo grande, o troppo all'insù. E adesso eravamo nel periodo "capelli fragili".

"E che diavolo! Sai da quant'è che la sto cercando? Ho i capelli fragili!", sbottò arrabbiata. In bagno trovammo Jordy davanti allo specchio, intento a pettinarsi proprio con la spazzola di nostra sorella. Lei gliela strappò dalle mani con fare deciso, lasciandolo con la mano penzoloni.

"I capelli fragili? Inventa una scusa migliore, la prossima volta!", urlò Jordy mentre lei usciva dalla piccola stanza.

Mi sorprese vederlo così arrabbiato e frustrato. Anzi no, non mi sorprese affatto. Sapevo bene che cosa lo rendesse continuamente così nervoso.

"Sai quanto è patita negli ultimi tempi con i suoi capelli", osservai guardandolo nel riflesso davanti a me. Mi appoggiai al soffione della doccia.

Alzò le spalle, direi leggermente sconfitto. "Più cresce più diventa squilibrata", disse soltanto. La sua voce risultò così bassa e profonda che mi fece sentire anche un po' in colpa.

Quando ero partita per Atlanta io e Jordy non eravamo in buoni rapporti. Non eravamo affatto in rapporti, in realtà. Dopo la cena con Tyler soprattutto. Poi io me ne ero andata, lasciandolo da solo in balia di se stesso, della mamma, ma soprattutto di nostro padre.

Direi che quello che l'aveva presa peggio era stato decisamente lui. Ad un certo punto, sentendogliene parlare, mi era sembrato che la vedesse più come una malattia da curare che una scelta di vita.

Comunque, quando ero tornata non avevo avuto neanche il tempo di respirare che già altri problemi si stavano affacciando sulla mia vita già disastrosa, ripensando a quello che Joyce mi aveva detto a Natale, e la verità che avevamo sentito uscire dalle labbra di Dan lo stesso giorno.

Quindi non avevo avuto molto tempo di parlare con lui e di provare a chiarire almeno un po' la situazione. Ed ora, non negavo ci fosse leggero imbarazzo tra noi.

"Forse lo eravamo anche noi, ai nostri tempi", commentai con una scrollata di spalle.

Mi guardò torvo. Era ovvio avesse interpretato molto male le mie parole. "A quanto pare io lo sono sempre stato", rifletté tristemente.

"Non è vero, Jor".

"Ah si? Perché sembra che io sia sempre stato malato. Cos'è, essere gay è una malattia? Vi ha sconvolti così tanto?", mi chiese frustrato.

Fece una smorfia per le parole che aveva usato, ma non ebbe il coraggio di ricambiare il mio sguardo nel riflesso davanti a lui. Intanto mise del dentifricio sul suo spazzolino e cominciò a lavarsi i denti.

Non mi toccare 2Where stories live. Discover now