48. Terrore, e poi il caos

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"Stay with me", Sam Smith

Le cose andarono di male in peggio. Non capivo che cosa mi stesse succedendo.

Mi sembrava di esser tornata a quei giorni bui e tristi che avevo vissuto per tutta la vita.

Non riuscivo a togliermi di dosso quella sensazione di mancanza. Ma, allo stesso tempo, mi sentivo così persa che avrei voluto solo mettere fine a quella sofferenza, ed avrei accettato le conseguenze, qualunque fossero state. Non mi importava più di nulla.

I giorni li percepivo come anni. I secondi erano una lenta agonia in cui soffocavo attimo dopo attimo, e l'aria che respiravo era impregnata di ricordi che avrei voluto solo stapparmi dalla testa.

Avevo ricominciato a vivere quegli attimi di tanti anni fa. Avevo ricominciato a sentire quelle sensazioni scorrermi sul corpo come l'acqua. Avevo ricominciato a non vedere più la luce in fondo al tunnel.

Volevo solo finire. Me stessa, quello che mi circondava, il dolore che provavo. Non sapevo cosa, ma volevo che qualunque cosa mi facesse sentire così finisse.

Ed avevo un pensiero terrificante che mi balenava in testa costantemente. Nello stesso momento in cui rivivevo le sensazioni di anni prima, la scena e la paura, si sovrapponeva il ricordo di quella notte. Con Tyler.

Era tutto così brutto e buio. Non volevo pensare al perché, mi rifiutavo. Ma sapevo quale fosse il motivo, ed ammetterlo sarebbe stata la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso.

La mia stabilità si reggeva per miracolo. Mi sentivo costantemente sul punto di piangere o di urlare. Dipendeva da quale sentimento si sarebbe manifestato prima.

Avevo cercato di tagliare i rapporti il più possibile con qualsiasi essere umano che mi circondasse. Pensavo che sarebbe stato doloroso, ma la solitudine, in qualche modo che ignoravo, riempiva da sola il vuoto che aveva portato con sé.

Susan e Clay non mi rivolgevano la parola. Be', perché fondamentalmente ero io che avevo smesso di rivolgergliela, così di conseguenza mi evitavano. Ed io ne ero più che felice. Volevo solo stare sola e cercare di capire che cosa mi stesse succedendo.

Il problema era Tyler.

Faceva di tutto per non lasciarmi escluderlo e starmi vicino. Buffo, no? Alla fine l'avevo trattato di merda.

E lui, invece di allontanarsi, faceva continuamente passi avanti verso di me. Io però, automaticamente, ne facevo uno indietro.

Non avevo bisogno di aiuto, né tantomeno del suo. Avevo solo bisogno di stare sola per un po' e riprendermi da qualunque cosa mi stesse succedendo.

Io non avevo bisogno di aiuto.

"Ragazzi, vi ricordo che manca poco più di un mese alla fine della scuola e molti di voi sono ancora nettamente sotto la sufficienza. Non faccio carità anche quest'anno. E non sparlate di me solo perché vi ho dato la bocciatura che meritate!", gridò il professor Beckham per sovrastare il suono acuto della campanella.

Presi un respiro profondo e mi alzai dal mio banco. Ero tentata di rimanermene lì a mangiare. In mensa sarei comunque stata tutta sola in un tavolo: per me non faceva alcuna differenza.

Invece dovetti alzarmi quando alcuni studenti dell'ora successiva cominciarono ad entrare.

"Ele, ciao!", esclamò il professore prima che uscissi dall'aula. Mi trattenei dall'alzare gli occhi al cielo e mi girai in modo forzato verso di lui, seduto davanti alla sua secolare scrivania.

"Salve", mormorai dondolandomi sui talloni, impaziente di andarmene il prima possibile.

"Allora, hai pensato alla proposta che ti ho fatto qualche settimana fa? Sai, quella su New York "

Non mi toccare 2Unde poveștirile trăiesc. Descoperă acum