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Uriah ed Emily erano giunti giusto un momento dopo, richiamati dalle urla e il frastuono.
La ragazza era corsa da me, cercando di coprirmi con la vestaglia e chiamando il mio nome.
Io non la ascoltavo, non ci riuscivo, impressa con anima e corpo nella vista del ragazzo che credevo essere morto.
Lui non era morto.

«Elias, cosa è successo?» Sentii chiedere da Uriah, oltrepassando i corpi degli aggressori per avvicinarsi all'altro ragazzo. «Abbiamo sentito le urla e i camerieri hanno riferito che le guardie all'ingresso sono ferite.»
Uriah lo aveva chiamato per nome - non me l'ero immaginata, giusto? Uriah chiamava Hamlet col nome del suo cane e non sembrava affatto sconcertato da tutto questo.

«Deve essere stato Adam a mandarli,» spiegò Hamlet, colpendo un cadavere con la punta della scarpa: «volevano attentare alla verginità di Ophelia, così da rendere nullo il matrimonio.»

Si stava comportando come se fosse il capo.
Nonostante i capelli e i vestiti sporchi, l'aria stanca e le ferite, un'aurea di importanza era cresciuta intorno alla sua figura, ben alimentata dagli sguardi di Emily e Uriah.
Temevo di essermi persa qualcosa di davvero importante.

«Ophelia!»
Emily fece appena in tempo ad acciuffarmi prima di vedermi svenire a terra e, con l'aiuto di Uriah, mi riportò al letto.
«Prendi un po' d'acqua,» istruì Uriah, ma io lo scostai, quasi infastidita.

«Non voglio bere,» mi rifiutai, sconvolta. Con estrema fatica, alzai lo sguardo su Hamlet – o Elias – gettandogli addosso tutto il mio dolore. «Come è possibile che tu sia vivo?»

Emily e Uriah si voltarono verso il terzo, già prevedendo notizie funeste – e come dal loro torto, tenendo conto che erano stati i messaggeri della sua presunta fine. Certamente, dovevano essere complici.

«Ophelia,» pronunciò Hamlet, con quel suo tono amichevole che, al momento, detestavo amaramente. Lo fermai subito, non facendomi scappare il sospiro nella sua voce.
«Voglio la verità, non l'ennesima storia.»

Il biondo strinse le sue labbra, capendo bene che avrebbe dovuto riflettere sulle sue parole. Hamlet aveva commesso l'errore di farsi conoscere – e riconoscere – in molte delle sue sfaccettature e, ora, non poteva permettersi il vantaggio di mentire.
Non gli avrei permesso anche quello.

«Il mio nome è Elias Dubàrt e il mio sangue proviene dagli stregoni francesi dell'est. Non sono morto, non lo sono mai stato,» spiegò, sintetico: «Uriah lavora per me, come magari avrai già capito, e, tutto questo,è opera mia.»

Elias provò ad avvicinarsi, ma io, d'istinto, indietreggiai, facendogli capire che doveva restarmi lontano. Lui, con la consapevolezza dipinta negli occhi, lo fece, ma non senza ferite.

«Non era mia intenzione ferirti, Ophelia. Non lo è mai stato.»
Serviva coraggio per ammettere così tante colpe in un solo momento. Falso era il nome, così come il resto della sua vita. Elias aveva ammesso di essere uno stregone – così, come se avesse descritto un cielo senza nuvole. Diceva che non avrebbe voluto ferirmi.
Troppo tardi.

«È difficile da spiegare,» si aggiunse Uriah, preoccupato del mio silenzio: «ma possiamo tentare, se deciderai di ascoltarci.»
Personalmente, avrei voluto tirargli un pugno in faccia.

«Vi sto già ascoltando, Uriah,» sottolineai, brusca. Il ragazzo abbassò lo sguardo, appesantito dalle sue colpe.

«Non prendertela con loro,» si insinuò Elias, ancora lontano: «sono solo pedine, mentre io il colpevole.»
«Il colpevole?» Chiesi, voltandomi verso di lui. Lo guardavo e, pur provandoci davvero, non vedevo più quel ragazzo che avevo incontrato in una cella spoglia. Vedevo potenza, in lui, così come rispetto e freddezza: come se avesse indossato un nuovo volto, Elias era mutato nella vera versione di sé stesso.
Lo spregevole, il bugiardo, l'ingannatore.

Ophelia | il cacciatore di stregheOnde histórias criam vida. Descubra agora