32. La solitudine

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"Non fai pena a nessuno.
Sei ridicolo.
Smetti.
Ricaccia dentro le lacrime.
Pensi che piangere ti aiuterà?
Non ti ama nessuno.
È per questo che sei qui dentro.
Non ti voleva nemmeno tua madre, ha preferito morire invece che tenerti"

Un calcio, forte talmente tanto da lasciare un livido sulle costole, una di esse potrebbe essersi spezzata.
Ancora un altro calcio, stavolta sulla gamba che si era parata a proteggere il torace.
Ma non riusciva a piangere, e non emetteva nemmeno un gemito di dolore.
Ricacciava tutto dentro perché sapeva che se avesse provato ad esternare il suo fastidio, probabilmente sarebbe stato peggio.
I suoi occhi fissavano il vuoto mentre veniva percosso, ancora e ancora da coloro che vivevano la sua stessa situazione.
Ma non poteva dire niente.
Nella sua mente pensava al fatto che nessuno dei suoi genitori l'avesse abbandonato volontariamente, ma le parole di quei bambini lo avevano fatto ricredere.
E se sua madre avesse tenuto duro invece di morire come una vigliacca?
E perché suo padre non l'aveva mai desiderato?
Perché era finito in un orfanotrofio?
Avrebbe mai conosciuto l'amore?

Quella sera, quando Abel era entrato si corsa per dare la notizia dell'arresto di Nott, aveva sentito un amore.
Intelligibile, una piccola fiammella che fece breccia nell'apatia, ma comunque un qualcosa.
Un qualcosa che gli fece capire che vivere l'amore non era sbagliato, e che forse, se non fosse stato ignorato quando gridava aiuto, non avrebbe mai trovato sbagliato.

Riddle era stato concepito dalla madre Merope e dal padre Tom sotto effetto di un filtro d'amore, che aveva fatto invaghire tremendamente l'uomo di lei.
Era stato concepito così, sotto la scia di un amore fittizio, completamente falso, e sarebbe stata sua maledizione portarsi dietro l'incapacità di provare un amore vero.
Quella fiammella, quell'amore fraterno che sentiva per Ralston tuttavia lo fece ricredere, al punto di pensare che c'era ancora tempo per lui.
Tempo che aveva buttato via a causa di quei bambini, quei mostri che ogni giorno riuscivano ad intagliare nuove insicurezze in lui.
Tempo che aveva giurato di riprendere una volta raggiunto il potere necessario per distruggere chi aveva osato dubitare di lui.
Tempo che con l'omicidio di suo padre, di Myrtilla Warren, e di chi dopo di loro, avrebbe riconquistato, rendendosi importante e immortale, in modo da evadere la concezione prettamente astratta di lancette che si muovono in un orologio.

Sarebbe andato oltre lo spazio ed il tempo per imprimere lì i suoi passi e la sua scia di magnificenza.

Avrebbe avuto successivamente la sua rivincita, dimostrando di essere il vero erede di Salazar Serpeverde.
Dimostrando che il suo sangue ribolliva come acqua in una pentola.
Dimostrando di essere il migliore.

Ma Tom non era sempre stato così.
Da bambino adorava cogliere le margherite che crescevano nel cortile attorno all'orfanotrofio.
E puntualmente quelle margherite venivano calpestate dagli stessi bambini che lo picchiavano e denigravano.
Adorava anche intonare filastrocche che leggeva nei libretti che si portava appresso la notte prima di dormire.
E puntualmente ritrovava gli stessi libri, la mattina seguente, rotti, con le pagine strappate via e abbandonate per terra.

Tom era stato solo per molti anni nella sua vita, solitudine nella quale aveva pianto della morte della madre e dell'abbandono del padre, e tante volte aveva sperato di poter rivedere uno dei due varcare la soglia della porta per portarlo con uno di loro.
Ma quel giorno non sarebbe poi mai arrivato.
Semplicemente perché la morte è l'unico 'per sempre' che possediamo.
L'amare per sempre non esiste.
Un sentimento non può essere trascinato allo stremo per tutta la vita incessantemente.
Una sensazione cesserà di esistere quando sarà seguita da un'altra.
Ogni secondo è seguito dal secondo dopo.
Ogni minuto.
Ogni ora.
E Merope, morendo, avrebbe commesso un errore fatale ma irrimediabile.
Tom era destinato, forse, ad essere un mostro.

Venena -TMRNơi câu chuyện tồn tại. Hãy khám phá bây giờ