49. Mamma, non tornerò a casa

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Tw: lesioni, sangue

Non c'erano campane in tono festoso ad allietare la cerimonia, ma solo la cupa sinfonia del pianoforte dai quali tasti aleggiava una tetra, lunga, lamentosa melodia, che dipingeva quella giornata, agli occhi degli invitati, esattamente così com'era: una condanna.

Il lungimirante ambizioso sguardo della madre assaliva Lilith alle spalle come un avvoltoio che stava per sbranare la preda. Aveva condannato sua figlia all'infelicità, e lo sapeva. Anzi, lo voleva. Voleva per lei un futuro prosperoso, ricco di cene in salotti costosi, tutto a spese della famiglia Dolohov che non sospettava minimamente dello stato di mezzosangue di Lilith. La madre della giovane aveva sempre sostenuto che il marito avesse frequentato un'altra scuola di magia, non Hogwarts come la figlia, né Durmstrang come i genitori di Dolohov, e la questione era stata delegata così, senza molti problemi.
Ma Lilith sapeva che se uno dei due genitori di Abel lo avesse scoperto sarebbe stata la fine delle alleanze e non poteva permetterlo, per quanto potesse odiare il matrimonio doveva continuare.

Quando il loro voto e le loro promesse si erano sigillate con un bacio, gli invitati non urlarono, né tantomeno lanciarono dalle loro bacchette fuochi d'artificio. Ci fu un semplice e freddo applauso, senza sorrisi, senza felicitazioni. Mani che battevano e battevano quasi a ritmo della canzone che il pianoforte faceva continuare ormai da venti minuti.

Perché così doveva essere, del resto era scritto no? Aveva consegnato in pasto a coloro che erano mangiatori la sua dote, Lilith. Avevano consumato ogni frammento della sua bellezza per restituirle qualche scampolo di giovinezza bruciata. Era una condanna sposarsi, soprattutto con Abel Dolohov. Perché se anche aveva provato ad amarlo, lui era riuscito a bruciare ogni fiamma in Lilith con i suoi comportamenti, la sua saccente attitudine, la sua ignoranza.

Ignoranza della volontà e del benessere della ragazza che ora era diventata sua moglie. Una moglie bella, frutto proibito colto prematuramente dall'albero, non ancora maturo per essere divorato. Ma la pressione che queste mani contadine le avevano messo, l'aveva forzatamente nutrita al fine di maturare preventivamente, non poteva fare altrimenti.
Non poteva più abbandonarsi alle futilità della notte, per ottemperare ai suoi doveri diurni. Doveri di moglie, di madre, di donna.
Perché così ora veniva considerata, donna. Una ragazza sbocciata in fretta per una vita che va di fretta.

Al matrimonio, gli invitati erano stati selezionati strettamente in base ad alleanze ed amicizie: i Lestrange sedevano dalla parte dello sposo, così come i Rosier, gli Avery e i Malfoy. I Mulciber non avevano potuto assistere a causa di un lutto avvenuto il giorno prima, la madre della madre di Nathaniel era venuta a mancare sotto la costellazione del Sirius.
Dalla parte di Lilith invece si stendeva solo una schiera di Black, a partire da Davina vicina a Tom, Walburga, Orion e i parenti.

Il vestito di Lilith era nero, addobbato di tulle voluminoso che le faceva prudere le braccia scoperte ogni volta che le poggiava lungo i fianchi. Il velo, anch'esso d'ebano, si confondeva tra le ciocche scure dei suoi capelli, arricciati per l'occasione.
Più che un matrimonio sembrava un funerale, poiché si svolgeva nel giardino dietro il maniero dei Vervain, contornato da un olmo fatiscente, le lapidi del cimitero familiare, e un salice piangente rigoglioso che assomigliava terribilmente all'aggressivo Whomping Willow di Hogwarts.

Arrivato il turno del catering, la celebrazione si spostò all'interno del maniero, e l'atmosfera iniziò a farsi più festosa. Per tutti tranne che per la sposa.
Era una sposa fantasma, più come una sposa cadavere. Le guance non erano rosee ma si uniformavano con il resto dell'incarnato, la pelle diafana risplendeva come se fosse un vampiro, in contrasto con il vestito e i capelli. Gli occhi verdi erano spenti. Non brillava più quella luce vivida, e il ghigno mefistofelico era stato sostituito da un broncio allungato verso il basso.
Era stata condannata ad un matrimonio che odiava con tutta sé stessa, e non poteva fare niente per scappare da quella condizione.

Era diventata atarassia, la sua. Per sopportare la celebrazione della sua condanna, che tutti sembravano recepire come una cosa positiva a parte i pochi che lo sapevano e rispettosamente sedevano in silenzio (tra loro anche Rosier sembrava aver capito la scontentezza di Lilith), era diventata apatica. Sorrideva solo se costretta, di fronte ai parenti dei suoi amici o di suo marito. Ma per il resto della giornata, non mosse un muscolo facciale. L'espressione stoica e violenta la contraddistinse per tutta la sua condanna.

Decisi dal Demonio, uniti dagli Dei, tra inferno e paradiso si erano uniti sotto lo scambio di false promesse e voti vuoti, un paradigma dicotomico di bene e male contraddistingueva i due ragazzi, ma non solo. Anche la loro unione presentava la suddetta dicotomia.

Lilith era imperfetta, così imperfetta da risultare uno spreco che gli Dei le abbiano donato cotanta bellezza.
Abel, il cui nome rappresentava di per sé già un carattere divino, era stato allo stesso modo immortalato in un corpo perfetto dall'anima corrotta.
Lilith, demone cacciato dall'Eden e prima donna di Adamo, e Abel, figlio di Adamo sacrificato a Dio. Entrambi correlati dalla stessa figura. Un marito. Un padre. Adamo.

E se nel grembo di Eva erano cresciuti i due fratelli, Caino e Abele, che erano stati frutto del suo ventre, nel grembo di Lilith quella notte sarebbe iniziato a crescere un altro peccato, il serpente tentatore che aveva dato inizio al peccato originale.
Dopo essersi uniti da tradizione, il ventre di Lilith aveva accolto un piccolo feto.

Un maschio, avrebbero poi scoperto alla nascita.

Una volta tenuto in braccio il piccolo, Lilith era disgustata dalla vista del bambino ossuto e fragile che era ancora ricoperto di placenta. La guardava con uno sguardo calmo, amorevole. Non piangeva, se non dopo essere stato sculacciato per aprire i polmoni. Ma costoro che al San Mungo lo avevano presentato come miracolo, perché nato lo stesso giorno di Godric Grifondoro, non avevano idea di quale creatura questo serpente avvelenato fosse capace.

Lilith lo crebbe alla meglio, non perché fosse dotata di un istinto materno, ma perché non poteva abbandonarlo. Quanto aveva desiderato che il suo piccolo pianto si fermasse per sempre. Quanto aveva desiderato che accidentalmente quel bambino cadesse dalle braccia di Abel schiantandosi al suolo.
Ma per quanto potesse aver desiderato tutto ciò, non era mai successo.

E il piccolo cresceva, cresceva a dismisura. Cresceva come se non fosse possibile arrestare il flusso inesorabile del tempo.
Cresceva, occupava spazio, esisteva.
Così non era possibile per Lilith, giorno dopo giorno, smettere di farlo esistere.
Non era possibile per lei uccidere quel piccolo bambino uscito dal suo corpo.

Perché per quanto potesse odiare quel serpente simbolo di schiavitù, un giorno l'aveva fatta ridere, quando aveva emesso un piccolo starnuto dal suono tenero. Il suo piccolo nasino aveva perso del muco e  guardò la sua mamma con occhietti lucidi aspettando di essere pulito. Allora Lilith rise, perché il suo piccolo starnuto era stato uno dei suoni più carini che avesse mai sentito in vita sua.

E pian piano gli occhietti verdi del piccolo le erano entrati nel cuore.
E pian piano il piccolo Antonin Adam Dolohov aveva conquistato la sua mamma.

E Lilith si maledì così tanto per aver desiderato che quel serpente si ingoiasse la coda fino a farsi sparire per sempre.
Si maledì per aver considerato il suo piccolo un serpente.

Si punì severamente, la sera dello starnuto.
Si punì passando la lama dell'affilata daga di Abel sui polsi, recidendosi il polso più volte, ogni volta che aveva pensato di uccidere quell'infante. Si punì passando la lama anche sulle cosce, come se stesse disegnando con l'inchiostro rosso sul suo corpo, un'infinità di dolorose linee che la percorrevano, la sua pelle un foglio bianco che accoglieva gli screzi man mano che se li procurava.

Poi si asciugò con un panno nero tutto il sangue che sgorgava dai suoi arti, e si sentì un po' più libera, come se ogni taglio avesse ricacciato via l'orribile pensiero di Antonin morto. Abbandonato. Straziato.

Come se il piccolo l'avesse guardata con quegli occhietti verdi, ormai vitrei e spalancati, e le avesse detto "Mamma, non tornerò a casa."

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