22. L' ora del tè

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Appena uscita da scuola vado nello studio di mio fratello. Corro fino alla fermata dell'autobus e per fortuna riesco a prenderlo.
Dopo due fermate arrivo alla mia, così scendo e mi faccio una camminata di dieci minuti, cercando di non imprecare sul perchè mio fratello abbia aperto uno studio così lontano dalla stazione.

Entro senza salutare il gruppo di ragazzi all'entrata, vado dritto da lui, sono decisa a parlargli della situazione a casa, voglio sfogarmi. Batto con le nocche tre/quattro volte sul legno nero della porta e dopo qualche minuto esce dalla stanza chiudendosi la porta dietro.

<Hey ciao, sono un po' impegnato> dice in fretta con il fiato corto.

<Volevo parlarti di qualcosa...> affermo decisa, con la voce infievolita.
Abbasso lo sguardo verso terra, lo faccio sempre quando mi sento giù di morale e lui lo sa, per lui sono come un libro aperto. Oggi a scuola ho fissato il quaderno, non ho ascoltato neanche per un secondo. Mi sento stanca, debole e tormentata dalle persone che in realtà dovrebbero amarmi e starmi accanto.
Noto però che ha la zip aperta e arrossisco violentemente, ma cerco di restare il più impassibile possibile.

<Di cosa vuoi parlare? Ho un bel po'di lavoro> chiede col fiatone, poggiandosi con la schiena al muro del corridoio.

Ingoio la saliva e dico <Non è importante, ne riparliamo un altra volta... che vuole fare il cliente?>.
Cerco con tutta me stessa di non guardare in basso, o dire qualcosa. Non voglio davvero sapere perchè avesse la zip aperta e ora che guardo meglio la maglia stropicciata.

<Niente di che, se vuoi stasera dormi da me> taglia corto.

<Devo chiedere...Comunque hai altri clienti all'entrata> dico prima di avviarmi verso l'uscita.

<Puoi dirgli che per oggi ho finito?> urla alle mie spalle.

Rimango spiazzata. Lui non rifiuta mai dei clienti...decido però di annuire. Avviso il gruppetto che per oggi non c'è più tempo, e gentilmente chiedo se possano tornare qualche altro giorno. Mi propongono un giorno che segno distrattamente su un pezzo di carta sulla scrivania, ed esco dopo di loro.

Non voglio neanche sapere cosa stava facendo. Ma cribbio! Io in quello studio ci passo le giornate, ho toccato qualsiasi oggetto là dentro, e che schifo quello era il nostro posto! Non mio, suo e delle sue amichette, solo nostro. Sospiro.

Neanche ľ unica persona in cui depongono fiducia mi ascolta, non ci prova nemmeno.

A volte mi chiedo se sono un peso per la mia famiglia, per i miei amici e anche per gli sconosciuti. Sono e mi sento come un' ombra, una persona che sta sempre dietro le quinte, a cui non manca niente per diventare protagonista, ma proprio non sà come fare...mi sento inutile.

Ora non so neanche dove andare. A casa di certo non torno.

Decido di chiamare Debra ma la stronza non risponde. Come al solito. E poi si lamenta se mi vede "giù".

Sospiro e decido di andare da Mr. Fitch, il mio vecchio insegnante di violino. Ormai è pensionato, se gli faccio una visita ne sarà felice. A dire il vero non lo vedo da qualche mese, prima lo andavo a trovare con molta più frequenza, ed ora mi sento in colpa. È stato uno dei pochi maestri che mi ha dimostrato fiducia e disponibilità, credo che sia come un nonno per me. Lui mi ha fatto amare il violino, anche se non ha mai condiviso l'ossessione di mio padre di farmi suonare più strumenti possibili, e anche io condivido l'idea, nonostante non faccessi nulla per cambiare la situazione.

Cammino per circa quaranta minuti. Se spendo ancora soldi per i trasporti non mi basteranno per tornare a casa col bus.

Arrivo davanti al portone rosso e schiaccio il pulsante bianco del campanello, che lascia un suono acuto e forte.

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