Capitolo 27

4.5K 134 14
                                    


KYLE

Perdo un battito. Non sono le parole che volevo sentirle dire. Avrei voluto per lei un passato felice, un'infanzia allegra, ma so che non è stato così per lei. Ha passato metà dei suoi anni a soffrire e io ho bisogno di sentire tutto.

La sua schiena è contro la porta, mentre con le mani sul viso tenta di nascondere le lacrime. Mi avvicino a lei e la tiro a me. So di non doverle mai toccare la schiena, così tengo una mano dietro la sua nuca e l'altra sul culo, mentre lei sta inzuppando il mio petto di lacrime.

"Va tutto bene, bimba. Non piangere, ci sono io qui con te" tento di rassicurarla.

Le sue mani lasciano il suo viso per circondarmi il collo, mentre il suo pianto si fa sempre più intenso.

Porto entrambe le mani dietro alle sue cosce e la sollevo, poi raggiungo il letto. La faccio sdraiare e io mi metto accanto a lei. Siamo tutti e due sui fianchi, uno di fronte all'altra. Sofia ha ancora le mani sul volto, cercando di nascondere il suo pianto. L'attiro a me e lei incastra il volto nell'incavo del mio collo, bagnandomi la pelle con le sue lacrime.

Continuo a stringerla a me, aspettando che si calmi un po'. È la seconda volta che a vedo piangere e questa volta ha veramente bisogno di sfogarsi e di lasciare andare quelle lacrime che ha trattenuto per tanto tempo.

Dopo più di cinque minuti di pianto incontrollato sembra calmarsi un po' e si allontana appena un po' dal mio collo per potermi guardare negli occhi. Passo entrambi i pollici sui suoi zigomi per asciugare le sue lacrime. È sempre bella, ma preferisco vedere i suoi occhi quando sono sorridenti o quando sono eccitati, non quando sono rossi e gonfi per il pianto.

"Ti va di parlarne?" le chiedo e lei annuisce, mentre i singhiozzi del pianto le mozzano ancora il fiato.

La mia mano è sulla sua coscia e con i polpastrelli fanno su e giù lungo la sua pelle morbida, mentre lei punta il suo sguardo verso il basso e afferra l'orlo della sua maglietta per stringerlo.

"I-io odio il giorno del mio compleanno perché...è il giorno in cui è morta la mia famiglia" inizia a dire e io rimango in silenzio tutto il tempo, cercando soltanto di tranquillizzarla con il movimento dei polpastrelli sulle sue cosce. "Quel giorno compivo nove anni ed eravamo andati a fare un pic-nic in montagna. Era pomeriggio ed era scoppiato un temporale, così siamo saliti in macchina per tornare a casa. Durante il viaggio papà si era reso conto che i freni della nostra auto non funzionavano più. Aveva tentato di tirare il freno a mano, ma anche quello era rotto. Stavamo scendendo una strada di montagna, fatta tutta di curve, e lui ha fatto il possibile per evitare un incidente, ma avevamo preso troppa velocità e alla fine la nostra auto si è prima schiantata contro il guardrail e poi è finita giù per una scarpata. Io ero seduta al sedile centrale posteriore ed ero l'unica senza cintura. Dopo l'impatto con il guardrail sono volata via dal sedile e la mia testa ha rotto uno dei finestrini e sono finita fuori dall'auto prima che finisse nella scarpata" mi dice e in quel momento sposta una ciocca di capelli per mostrare una piccola cicatrice che ha sulla fronte.

Non l'ho mai notata e in effetti è quasi scomparsa, ma so che per lei è più visibile di qualsiasi altra cosa.

"Questo è l'unico segno che mi porto di quel giorno" mi dice, poi lascia andare i capelli e torna a guardare l'orlo della maglietta che sta torturando.

Non ce la fa a guardarmi negli occhi e mi va bene così, perché voglio semplicemente che mi parli.

"Non ricordo niente di ciò che è successo dopo, so solo che mi sono ritrovata in America, in un orfanatrofio. Non so nemmeno come ci sono arrivata. Era l'istituto St. Joseph di New York e, solo dopo essere arrivata lì, ho capito che le cose per me non sarebbero state facili" dice, prendendo un attimo di pausa. 

HandlingWhere stories live. Discover now