trentadue.

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Buon viaggio (Share the love) - Cesare Cremonini
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«Prometto che vi scriverò», affermó Izuku sciogliendo l'abbraccio che, per svariati minuti, l'aveva tenuto legato ai suoi genitori. «Vi chiedo ancora scusa», concluse a sguardo basso. «Mi perdonate, questa volta?»
«Izuku, non preoccuparti. Noi vogliamo solo che tu stia bene e che sia felice», disse Inko, passando dolcemente una mano tra i suoi morbidi capelli. Quelle parole così difficili da pronunciare erano reali e sincere, e malgrado il vuoto che Izuku avrebbe nuovamente lasciato, fisicamente e moralmente, sapeva che lasciarlo partire era la cosa più giusta da fare.
La voce metallica dell'aeroporto comunicó per la terza volta in cinque minuti che il volo stava per partire, e Midoriya salutó un'ultima volta la madre e il padre prima di salire a bordo.
«Izuku!», sentì la voce del padre che lo fece voltare. «Salutaci il tuo amico!», gridó con un sorriso a trenatue denti, che il figlio non poté non ricambiare.
«Lo farò, papà!», sorrise a trentadue denti.

Volò per tredici ore con lo sguardo rivolto al finestrino e, questa volta, un'espressione sorridente, le cuffiette nelle orecchie e tanta musica allegra con cui, dopo poco, si addormentò. Quando giunse a destinazione era ormai mattina e, in particolare, le dieci e mezza. Appena due ore dopo sarebbe arrivato a casa, quindi afferró la sua valigia e immediatamente si diresse alla stazione, dove il treno era già arrivato ma fortunatamente non ancora partito. Salì in fretta e si sedette, ancora con le cuffiette nelle orecchie, che non aveva tolto neanche per un istante da quando era salito sull'aereo. Ascoltò canzoni mai ascoltate prima durante quel, relativamente, breve viaggio, e creò una nuova playlist, con le canzoni che più gli ricordavano Shoto.

E pensare che tra poco ti rivedrò...

[...] La valigia non sembrava pesare tanto quanto in precedenza quando scese dal treno.
Immaginò come si sarebbe sentito se avesse trovato lì qualcuno ad aspettarlo come quando era arrivato in America e ad accoglierlo c'erano i suoi genitori, ma si ricordò che tutti erano a scuola e che, in ogni caso, nessuno ci sarebbe stato: non aveva detto a nessuno del suo improvviso (e forse un po' improvvisato) ritorno.
Percorrendo le vie del suo paese, un po' si sentiva spaesato. Tornare dopo settimane era strano, ma forse proprio per questo era bellissimo.

Passò davanti alla piscina, sorridendo e pensando alla faccia che avrebbe fatto Tanaka quando lo avrebbe rivisto. Era probabilmente la persona a cui doveva più di tutti delle scuse, per non essersi presentato agli allenamenti ed essere sparito senza un minimo di preavviso. Forse, in fondo, avrebbe dovuto chiedere scusa a tutti per aver scombussolato ogni cosa ed essere andato via, mostrandosi agli occhi di tutti un codardo che ha troppa paura per affrontare le difficoltà che la vita gli pone davanti. Sospirò e continuò a camminare, tornando ancora una volta a sorridere perché finalmente lo avrebbe rivisto.

Una volta a casa, quasi scoppiò a piangere di gioia. La sua piccola dimora, il suo appartamento, le scale del condominio per arrivare al terzo piano, gli erano profondamente mancate. Guardò la porta dell'appartamento di fronte al suo sapendolo vuoto, ma tanta era la voglia di stringerlo a sè e sentirlo, che non potè non scrivergli.
«Come stai?» digitó, per poi entrare.
Si guardó intorno, ricordando quando, da bambino, entró per la prima volta in quel luogo al tempo sconosciuto e cominció a studiarlo in ogni minima parte.
Allo stesso modo, si guardó intorno in quel momento, ma consapevole di essere in un posto conosciuto, familiare e, soprattutto, casa.
Era nuovamente felice, così tanto da non riuscirlo neanche a spiegare.

«Sono stanco»
«E mi manchi»
«Com'è l'America?»
e una volta letti rise.

«Anche tu mi manchi. L'America è bella, ma mi disorienta»

𝐈𝐥 𝐦𝐢𝐨 𝐯𝐢𝐜𝐢𝐧𝐨 𝐝𝐢 𝐜𝐚𝐬𝐚 | 𝖳𝗈𝖽𝗈𝖽𝖾𝗄𝗎Where stories live. Discover now