Prologo (Revisionato)

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Correre. Avevo sempre amato correre, ma non quando si trattava di fuggire dalla mia morte. Tuttavia, non potevo scappare a lungo, non quando la persona dalla quale scappavo ero io stessa. Sapevo cosa sarebbe successo, me lo sentivo fin dentro le ossa, fin dentro le giunture. Più correvo, più mi rendevo conto di quanto inutili fossero la speranza, la fiducia e l'illusione.

Tap tap tap. I passi sul suolo. I passi che non erano i miei. Sempre più pressanti, sempre più vicini.

Aumentai il ritmo della corsa.

Dovevo distanziarli, era imperativo.

Ogni cosa divenne una macchia indistinta: gli alberi, gli edifici, il paesaggio circostante, persino i miei piedi, che si trasformarono in due piccole saette scure e confuse, generando a intermittenza gli stessi concitati movimenti dei lampioni sfreccianti ai miei lati.

Conoscevo la città, ero sempre stata in grado di orientarmi anche in momenti dove la lucidità era ben distante da me, eppure in quel momento non avevo idea di dove il panico mi avesse condotta. Non sapevo nemmeno in quale zona fossi capitata, ma non importava. L'importante era continuare a correre, non farmi prendere, non farmi totalizzare dalla paura, dalla rabbia, dall'oscurità che minacciava di inghiottirmi e di sputare la mia carcassa, che minacciava di ancorarmi al terreno, anestetizzando il mio corpo.

Sperai con tutto il cuore di non inciampare sui ciottoli scivolosi, oppure di non incappare in un vicolo cieco: avrebbe segnato inesorabilmente la fine dei giochi. Sarebbe stato un brutto scherzo della sorte quello di soccombere in quel modo, come un topo in gabbia.

Il sudore mi scorreva copioso dalla fronte e impregnava i miei lucidi capelli neri facendoli aderire al viso stanco, emaciato, annientato. La pelle mi pizzicava, le vene sulle tempie pulsavano e il fiato divenne sempre più spaventosamente corto.

Non mollare, ce la puoi fare.

I miei inseguitori non erano veloci come me ma, oh, erano molti, troppi per poterli contare.

Troppi per sperare di poter fuggire.

Udivo il rumore dei loro passi sempre più vicini picchiettare sull'acciottolato bagnato, il suono inconfondibile di schizzi d'acqua prodotto dal loro calpestio cadenzato, il rumore stridente del metallo su altro metallo, i loro respiri accelerati e le loro intimidazioni perentorie.

«Fermati!» urlò un uomo. «Non puoi scappare!»

Certo che potevo, non avevo alternative. Che fossi dannata se uno di quei sporchi e sudici adepti avesse messo le mani su di me. Ma sapevo che erano solo fantasie, le mie. Sapevo di non dovermi illudere troppo su quello che sarebbe stato il mio destino da lì a poco.

No.

Non potevano avermi.

Sentii le gambe appesantirsi e l'ansia guadagnare terreno. Un uomo si staccò dal gruppo e riuscì a raggiungermi, afferrandomi un braccio. Sfruttai a mio vantaggio il contraccolpo, slanciandomi con tutta la forza che avevo per cercare di divincolarmi. Con un pugno gli centrai uno zigomo, riuscendo a placarlo per pochi secondi, ma l'inconveniente mi fece perdere troppo tempo.

Dannazione!

Riuscii a liberarmi dalla sua morsa con un potente strattone e lui perse l'equilibrio. Mi voltai per continuare la mia estenuante corsa contro il tempo, ma l'aggressore ritornò impetuoso su di me, afferrandomi violentemente i capelli. Il dolore si diffuse a ondate intense e veloci sulla superficie della cute, ma non urlai, non emisi nessun lamento, se non un piccolo rantolo quasi inudibile.

I passi dei miei inseguitori si fecero pericolosamente vicini.

"Devo sbrigarmi", pensai.

«Dove credi di andare...» sibilò lo sconosciuto a denti stretti, dopo avermi bloccata da dietro. «Non penserai di poterci scappare? Sei troppo preziosa, troppo importante per noi.» Nonostante avessi il fiatone, riuscii a percepire un intenso fetore di uova marce. Mi mancò il fiato per la repellente vicinanza del suo viso.

«Va' a farti fottere!» ribattei di rimando, sentendo le sporche e rozze mani dell'uomo percorrermi il corpo e addentrarsi in posti privati. Della bile mi salì in gola, bruciandomi l'esofago come avessi ingerito direttamente una fiamma ossidrica. Sentii lo stomaco chiudersi a pugno, la sua vicinanza mi provocava la pelle d'oca, ma dovetti resistere e non farmi sopprimere da quell'orrenda sensazione.

Contro la mia volontà, decisi di mordere una di quelle sudice mani, quella che nel frattempo si era inoltrata nella moderata scollatura del mio maglioncino nero. L'aggressore imprecò, emettendo un suono virile e gutturale. L'azione avventata aveva sortito l'effetto desiderato, e lo sconosciuto mi liberò quel tanto per permettermi di sferrare un attacco ben assestato: un poderoso calcio che prese in pieno lo stomaco dell'adepto. Il dolore lo fece piegare in due.

Non ci pensai due volte e sfrecciai fulminea nella gelida notte un passo dietro l'altro, un respiro dopo un altro. E, improvvisamente, una sensazione sgradevolmente familiare cominciò a serpeggiarmi sull'epidermide. Tutti i muscoli del mio corpo si contrassero istintivamente nella speranza di mitigare, di controllare, le vibrazioni che mi sbocciavano da dentro e si inerpicavano lungo le mie membra. Sentii il male prendere possesso dei miei sensi, lo percepii irradiarsi lungo tutte le mie terminazioni nervose.

"No..."

I suoni intorno a me iniziarono a sbiadire, diventando meri sussurri. Le voci attutite, la testa leggera. Era come entrare in un'enorme bolla di sapone, dove tutto il mondo esterno mutava, diventava ovattato, distante. Sapevo cosa mi stava accadendo; quella sensazione familiare mi invase gradualmente e, nonostante la mia mente fosse guardinga, non riuscivo a liberarmi dall'ottundimento e dalla confusione che mi stavano inglobando.

"No... Non ora. Non adesso!"

La gola mi diventò secca, la vista sfocata. Sentii gli occhi bruciare.

"Ti prego..."

Le ginocchia divennero molli e ogni cosa perse di significato. Divenni leggera come una piuma e tutto sembrò un sogno. Un colossale, gigantesco, orribile incubo.

Dopodiché affondai nell'oblio.

Utrem Humano SanguineWhere stories live. Discover now