Capitolo 3: Inquietudini (Revisionato, parte 2)

2.6K 191 23
                                    

Aprii gli occhi. Non sapevo cosa fosse quel tintinnio assordante, simile allo schiocco di lingua contro il palato. Non riuscivo a capire da dove provenisse, in quale direzione dover guardare. Quando sollevai le palpebre, quel rumore fastidioso mi privò del mio stato di incoscienza. Non riuscii a guardare niente nonostante gli occhi spalancati: il buio governava intorno a me. Non sapevo dove fossi, ma il panico non si impossessò della mia mente. Era come se, in realtà, una parte del mio cervello conoscesse il luogo in cui mi trovavo.

Una luce accecante si azionò all'improvviso, ferendomi gli occhi. Gemetti, sentendo il dolore che mi attraversava la cornea da parte a parte; li chiusi istintivamente, increspando le labbra secche. Credetti di aver perso per sempre la vista, perché i miei globi oculari non la smettevano di bruciare. Sollevai faticosamente le palpebre pesanti. Con lo sguardo assottigliato sperai di potermi abituare rapidamente a quel bagliore prorompente. Feci per coprirmi il volto con un braccio, ma qualcosa bloccò le mie mani, stringendosi repentinamente intorno ai miei polsi. Inspirai l'aria della stanza con veemenza, avvolta da una sottile patina di smarrimento, e subito me ne pentii: sapeva di candeggina e di altri additivi chimici che non seppi identificare. Quel fetore mi pizzicò il naso e mi fece rivoltare lo stomaco. Man mano che mi abituavo alla luce, vidi le immagini sfocate diventare sempre più nitide e le linee triplicate che delimitavano le quattro pareti spoglie intorno a me si ridimensionarono sotto il mio sguardo incredulo. In seguito, il dolore agli occhi parve affievolirsi. Cercai di scandagliare meglio la stanza in cui ero rinvenuta in un vago tentativo di stabilire un ordine nella mia testa, ma fu tutto inutile. Sembravo assuefatta da sostanze stupefacenti. O, almeno, era così che supponevo ci si sentisse ad essere un drogato che aveva appena preso una dose di eroina.

Cercai di concentrarmi e di reprimere quell'odore sgradevole che mi stritolava i polmoni. La prima cosa che misi a fuoco fu un orologio appeso alla parete dinanzi a me, mentre avanzava imperterrito producendo lo stesso picchiettio scandito che mi aveva svegliato. Era grande, logoro, e mi guardava con una sincerità brutale mostrandomi implacabile scorrere del tempo, come se dicesse: "Tic tac, il tempo sta per scadere. Tic tac, la tua ora sta per arrivare".

Distolsi lo sguardo, amareggiata, portandolo lentamente a una porta metallica alla mia sinistra. La porta era affiancata da un enorme specchio che copriva gran parte della parete. Nello specchio vidi solo una macchia scura fare capolino. Quella macchia sembravo io. Non lo sapevo. Ero piombata in uno stato di disorientamento che mi rendeva poco lucida.

Abbassai lo sguardo, deglutendo a fatica, e riuscii a vedere i miei polsi e le mie caviglie bloccati da fasce nere ben saldate sul lettino su cui ero distesa. Notai indistintamente qualcosa conficcato nella parte interna del mio braccio pallido. Da lì, partiva un lungo tubicino trasparente. Lo seguii con lo sguardo vitreo, non domandandomi nemmeno che cosa fosse – non avevo la forza di rispondermi. Quando arrivai alla sommità di una lunga stecca di alluminio che reggeva un sacchetto di plastica spremuto, capii cosa stava succedendo. Il sacchetto era vuoto. Ero stata drogata.

Nella stanza ero sola, l'effetto dei narcotici stava lentamente scemando riportandomi alla realtà, e io dovevo muovermi. Non seppi il perché, non conobbi il motivo, ma ebbi l'inequivocabile certezza di dover trovare un modo per liberarmi da quel lacci che mi ancoravano su quel freddo letto.

Incominciai a fremere dall'impazienza, dimenando i miei arti. Percepii l'aria gelida accarezzarmi le gambe e scoprii di indossare solo una maglia bianca, sterile, che mi arrivava appena sopra le ginocchia.

I miei movimenti convulsi non attirarono l'attenzione di nessuno. Mi sarei aspettata un'intera squadra di assalitori – medici? Poliziotti? – varcare la soglia della camera, ma nessuno aprì quella porta. L'ipotesi che fosse una stanza insonorizzata mi diede ancora più coraggio e con slancio cercai di allentare il più possibile almeno una delle due cinghie che mi trattenevano le mani. Mossi i polsi in tutte le direzioni, tirando, spingendo, strattonando, con gli occhi che mi lacrimavano per la disperazione. Digrignai i denti, lanciando un urlo di frustrazione dopo vari tentativi andati a vuoto, correndo stupidamente il rischio di essere sentita. Capendo di avere ancora la mente appannata e in preda alle emozioni, regolarizzai il respiro, imponendomi di ricompormi. Respirai dal naso e riprovai ancora, con una pacatezza che stentavo a controllare. Le mie mani erano sottili, pallide e contuse. Violacee. Strinsi le dita per assottigliarle e ridurne le dimensioni, tirando il gomito verso di me un poco alla volta. Un. Poco. Alla. Volta. Lentamente. Sentii le mie ossa rimpicciolirsi e scricchiolare impercettibilmente, era come tenere la mano ferma in un rullo compressore. Strinsi gli occhi, voltai la testa, e tirai con tutta la forza che mi rimaneva. Qualcosa si era staccato dalla mia pelle e, quando riabbassai gli occhi per vedere che cosa fosse, vidi del sangue sul mio polso ancora imprigionato. Delle croste ematiche di un taglio non del tutto rimarginato sul palmo – che non sapevo come mi fossi procurata – erano state strappate a causa dei movimenti. Scoprii che i miei polsi erano fasciati sotto le cinghie. Il taglio era profondo e il sangue impregnò le fasciature, cadendo lentamente sulla sbarra di alluminio del letto, sul lenzuolo bianco, sulla mia maglia e infine per terra. Tenni il palmo all'insù, conficcandomi le unghie nella ferita per aumentare il flusso del sangue. Il dolore fu lancinante e ricacciai indietro le lacrime mordendomi un labbro per lo sforzo. Ritentai ancora una volta. Il sangue fece da lubrificante e grazie alla sua fluidità riuscii a sfilare la mano senza provocare danni ingenti alle ossa o ai tendini. Mi strappai l'ago dalla mia vena. Dopodiché fu tutto un susseguirsi di gesti dinamici e impacciati. Ci misi un po' a sbarazzarmi dell'altra cinghia che mi legava la mano, stessa cosa con le caviglie. Il sangue continuava a scorrere e lasciavo impronte vermiglie dappertutto. Anche sotto le fasciature delle ferite si erano riaperte. Mi sentivo sempre più debole. Impaurita.

Utrem Humano SanguineWhere stories live. Discover now