capitolo nono

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Il progetto del dipinto proseguiva a gonfie vele, io ed Utahime ce ne stavamo nella stessa posizione per ore ed ore con i muscoli ed i nervi intorpiditi mentre l'artista migliore di Edo si assicurava che tutto risultasse come da contratto. Ma quel giorno io riuscii a pensare solo ad una cosa. Dovevo chiederglielo.

-Facciamo domani allora?- gli domandai sorridendo mentre seduto sul divano aspettavo sistemasse come ogni giorno le sue cose per andarsene dal mio palazzo. Quando alzò lo sguardo mi osservò quasi confuso, come se non sapesse a cosa mi stessi riferendo, così proseguii con il mio discorso. -Intendo per la lezione di tiro con l'arco, ricordi? Alla mia tenuta, quella dell'altro ieri- cercai di fargli capire io gesticolando un po' con le mani imbarazzato. Forse faceva finta di nulla perchè non aveva voglia, ma poi vidi le sue sopracciglia alzarsi e il suo volto mutare in un'espressione quasi, felice. -Oh, ma certo! Perdonatemi, è che in questi giorni ho dormito poco, dunque non ci sono molto con la testa-

-Beh se vuoi riposare possiamo anche fare un altro giorno, per me non ci sono problemi-
Immediatamente scosse la testa -Ma no, figuratevi non intendevo dire quello, per me va più che bene domani- mi disse sforzando un sorriso. Fu in quel momento che per la prima volta quel giorno fui in grado di osservare grandi e profonde occhiaie viola che aveva sotto gli occhi e le guance leggermente scavate. Inspirai forte, poi feci altrettanto espirando, non  mi ero affatto reso conto del suo aspetto dopo che andammo a fare la nostra piccola passeggiata a cavallo fino alla mia tenuta. Ero troppo preso a pensare ai preparativi del ballo di Utahime, al mio abito, a mia madre e alla lezione di tiro con l'arco che avrei dato a Geto da li a poco.

-Mi dispiace- gli dissi alzandomi in piedi per andare verso di lui, mentre poggiando la mano destra sul caminetto dove solitamente lavorava mi sedetti a terra.

-Per cosa?- mi domandò mettendosi a sedere accanto a me, dopo aver terminato di sistemare tutte le sue cose. Era la prima volta da quando lo conoscevo che aveva fatto un gesto del genere prima di chiedere il permesso o cercare di scansarsi perché appartentente ad una classe sociale inferiore alla mia. Girai il capo, guardai per qualche secondo il suo profilo, prima che mi diede la possibilità di guardarlo dritto negli occhi. -Per non aver visto come stavi in questi due giorni-

-Oh no ma io sto bene, solo che- stava per dire qualcosa, avrei potuto giurare che stesse per dire qualcosa di importane, ma poi si fermò ruotando il capo in direzione dei miei giardini, in modo tale che non potessi più guardarlo. -Solo che?- gli domandai invitandolo a parlare -Nulla, solo che nulla-

Ero circondato da gente che non mi diceva le cose e che non parlava mai con me, di come stessi, di cosa facessi, nulla di nulla. Ero abituato a tenermi tutto dentro e sapevo perfettamente che prima o poi vivere in certe condizioni ti porta inevitabilmente a scoppiare e in quel momento lui era pronto a farlo, ma non con me. Forse da solo a casa senza nessuno lì per dargli una mano, ma proprio perché io ero il primo a sapere come ci si sente a vivere cosi, non volli restare indifferente.

-Stavi per dire qualcosa Geto- gli dissi alzando i bordi delle labbra con fare gentile. Non ero un suo nemico, non lo ero mai stato, nemmeno il giorno della nostra litigata lo fui. Volevo solo fargli capire che non ero come mia madre e tutti gli altri nobili di Edo, poteva fidarsi di me, ma non sembrava convinto.
-Non era nulla di importante, un pensiero che mi era passato per le testa-
-Dimmelo- gli dissi questa volta con tono serio -Mi interessa-
Immediatamente quasi d'istinto di girò di scatto -Vi interessa?-
Me lo domandò stupito, come se nessuno mai gli avesse rivolto quelle parole di conforto. Mi sentivo esattamente come lui ogni singolo giorno della mia vita.
-Certo, perché non dovrebbe?-
-Perché davvero non è importante-
-E io davvero voglio saperlo-
Sospirò -Ho due sorelle, molto più piccole di me-
-Oh- dissi io d'istinto, credo il mio viso fosse mutato in un'espressione stupita a giudicare dal sorriso che mi rivolse lui. Era sincero, genuino.
-È colpa loro molte volte se non dormo la notte-
-Come mai?-
-Perché si svegliano nel cuore della notte per dirmi che hanno fame, che vogliono giocare, che non hanno sonno, tutto quello che fa una lo deve fare anche l'altra-
-Come si chiamano?-
-Mimiko e Nanako, sono gemelle-

Non ne ne aveva mai parlato, non avevo idea si portasse sulle spalle un fardello del genere.
-E quanti anni hanno?-
-Hanno sette anni-
Abbastanza piccole per essere considerate un impedimento nella vita di un adolescente come lui.
Si tirò le gambe al petto e vi appoggiò il mento, mentre con sguardo stanco e perso guardava dritto avanti a se. Copiai la sua posizione, ma non tolsi gli occhi da lui.
-Mia madre è morta quando avevano due anni-
Spalancai gli occhi, mi sentii la bocca secca, il cuore in gola. Per la prima volta si stava confidando con me senza che gli chiedessi nulla.

Stavo cercando le parole giuste per rispondergli, frugavo nella mia testa nella speranza di potergli dire anche solo un -Mi dispiace, non ne avevo idea- ma nulla, non riuscivo a parlare. Fu lui a continuare.
-È stata colpa di quelli come voi-
Lo disse quasi con disprezzo, sputandomi in faccia quella sentenza mentre con un pugno serrato stringeva a se la tunica che indossava. I suoi occhi erano diventati di fuoco.
-Come?- gli domandai guardandolo confuso.
-Ad uccidere mia madre sono stati dei nobili-

Istintivamente mi alzai, non riuscii a stargli accanto. Mi sentivo sporco, sentivo le mani calde bagnate da un sangue che non mi apparteneva. Non dovevo farmene una colpa, non ero stato io ad uccidere sua madre, la mia unica colpa era quella di essere nato in un ceto sociale che non mi apparteneva.
Poggiai entrambe le mani al caminetto che ora era davanti a me, con il volto basso, respirando piano.
-Non ne avevo idea-
-Già, come avreste potuto, d'altronde lei è solo una delle vostre vittime-
"Vostre". Quindi nostre, mie.
Aveva sottolineato quella parola, l'aveva fatto per farmi rimanere di sasso, sapeva che non avrei saputo rispondere ad una provocazione del genere.
-Alle mie sorelle ho dovuto dire che si è trasferita per lavoro, fuori Edo- una lacrima gli rigò il viso -Loro credono sia ancora viva-
-Com'è morta?- glielo chiesi fuori dai denti, non avevo altro da dirgli, altro che potesse consolarlo o che potesse dimostrargli che ero dalla sua parte.

-L'hanno uccisa un giorno d'inverno cinque anni fa- si stava stringendo sempre di più in quell'angolo, diventava man mano piu piccolo.
-Faceva la prostituta- sospirò -Non so cosa successe, non mi è stato mai concesso il beneficio di una risposta, mi dissero che si era suicidata lanciandosi dal balcone di una camera, ma non ci ho mai creduto-
Rimanevo ad ascoltarlo con il volto basso, che però giravo piano piano verso di lui, ora le lacrime erano diventate due.
-Faceva il suo lavoro, non ha mai avuto problemi con nessuno, ma quella notte qualcosa andò storto- credo non sapesse nemmeno lui cosa aggiungere, avevo compreso mi considerasse un nemico a tutti gli effetti.
-Non vidi mai io suo corpo, la buttarono nella fossa comune-
-Chi ti ha raccontato dell'accaduto?-
-Questo- esitò -Questo non posso dirvelo-
Alla mia domanda sbiancò, poi iniziò ad alzarsi.
-Geto, chi te l'ha detto?-
Quando fu finalmente in piedi, prese la sacca da terra, se la mise a spalle, poi iniziò a camminare.
Lo fermai per un braccio, tirandolo verso di me con tutta la forza che avevo in corpo, ma si oppose, tolse la mia mano dal suo braccio, scosse il capo.
-Rispondi, dimmi chi ti ha detto che tua madre è morta quella notte- gli dissi trovandomi a meno di mezzo metro da lui. Lo presi per le spalle ed iniziai a scuoterlo -Rispondi, cazzo!-
Mi guardò con gli occhi rossi, il suo volto scavato e quelle occhiaie che diventavano man mano sempre più viola -Utahime- sussurró -Utahime Iori-
Le sue parole si persero nella stanza come un soffio al vento, mentre rimbalzavano sui muri del mio salotto fino a risuonare come un fischio nelle mie orecchie.

Per un attimo vidi tutto nero, incapace di muovermi, di parlare, di pensare. Poi il fischio diventò lo sbattersi di una porta che mi fece tornare con a piedi a terra.
Mi accasciai sul divano, guardai il soffitto e poi il nostro quadro.
Utahime.

ikigai || satosuguWhere stories live. Discover now