capitolo undicesimo

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-Ciao!- esclamò una bambina bionda sulla soglia della porta di quella piccola casa in centro. Aveva i capelli corti ed era piuttosto mingherlina.

-Ciao- risposi io ricambiando un sorriso. Lei mi osservò come se si fosse trovata di fronte un nemico da abbattere, lanciando fugaci occhiate alla sacca che tenevo salda nella mano destra, mentre tenevo quella sinistra nella tasca della mia tunica.

-Non ti ho mai visto- continuò mantenendo sempre il palmo della mano sulla porta, pronta per sbattermela in faccia -Chi sei?-
-Sono un amico di tuo fratello, lui è in casa?- le domandai inginocchiandomi davanti a lei per poterle permettere di guardarmi negli occhi.
-Si- mi rispose -Sta cucinando la cena per mia sorella, ha il raffreddore-

-Signor Gojo!-
Una voce, la sua voce, proveniente da dietro le spalle della bambina distolse la mia attenzione dalla piccola. Guardai oltre le sue spalle e vidi la figura di Geto farsi sempre più vicina, mentre i miei occhi azzurri si tuffarono nei suoi scuri. -Questo tizio ha detto di essere tuo amico- esclamò la bambina che in men che non si dica venne levata da terra dal fratello che la caricò a spalle, sussurrando un "questo tizio" con un piccolo sorriso sul volto.
-Entrate pure e perdonate il disordine, non aspettavo visite- mi disse indicandomi il divano al centro del piccolo salotto, dove mi ero seduto anche il giorno in cui andai a scusarmi con lui.
-Vi spiace se porto mia sorella in camera?-
-Fai pure- gli dissi sforzando un sorriso, prima di osservare la sua figura farsi sempre più lontana e poi sparire dietro ad una porta che venne prontamente chiusa.

Quella notte non avevo dormito, dopo la litigata con Utahime e la sua confessione, la mia rabbia andò a mischiarsi con un bicchiere di sakè, che poi diventarono due, tre, quattro, fino a ritrovarmi accasciato al terreno con il volto rigato dalle lacrime. Lei non era ciò che avevo creduto fino a quel momento. Era un mostro muta forme che aveva preso le sembianze di un'assassina ai miei occhi.
Non so con quale coraggio decisi di uscire di casa per andare da lui, ma sentivo come se fossi in debito, come se fossi stato io ad essermi sporcato le mani di sangue. D'altronde facevo parte di quell'aristocrazia malata che lui tanto ripudiava.

-Non provate ad uscire o ve la vedrete con me!-
La voce di Geto mi fece tornare con i piedi per terra dopo aver scosso la testa, osservandolo mentre puntava un dito contro entrambe le bambine nella stanza, sempre con il suo sorriso sul volto, poi si voltò verso di me.
-Non serve che tu le chiuda in camera, possono stare qui con noi- gli dissi mentre lui pian piano si avvicinava
-Sarebbero solo d'intralcio, non stanno ferme un attimo- mi risponde scuotendo il capo.
Presi la sacca che avevo precedentemente lasciato accanto a me, poi gliela diedi. Lui l'afferrò guardandomi confuso, poi l'aprí.
-È tè- esclamó sorridendo, iniziando a frugare al suo interno.
-La prima volta che sono stato qui non mi hai offerto del tè perché hai detto che era troppo costoso a causa della crisi, quindi te l'ho portato io-
-Non so che dire, come posso sdebitarmi?-
Iniziai a scuotere un capo e a porgere una mano davanti a lui -In nessun modo- risposi prontamente -Ma ne berrei volentieri un po'-
-Volete seguirmi?-
-Con piacere-

Oltrepassammo la stretta porta che divideva il salotto dalla cucina, poi poggiai la schiena alla parete portante. -In realtà non sono venuto qui solo perché avevo sete- aggiunsi mentre lui iniziò a spacchettare il regalo che gli avevo appena dato -Avevo immaginato- mi rispose guardandomi dritto negli occhi, come se avesse già capito dove volessi andare a parare. Infatti, quando cercai di aprire bocca, lui parlò per primo -Se siete qui per parlare di quello che ho detto lo scorso giorno, di Utahime, di mia madre, non fatelo-
Prese due delle tre tazze presenti al di sopra di una mensola in legno, poi le poggiò sul piccolo tavolo all'interno della stanza.
-Sono venuto qui due volte Geto, e due volte tu mi hai detto di non parlare, di non abbassarmi perché sono un nobile-
-È così- continuò lui interrompendomi -Lo siete, non dovreste nemmeno essere qui-
-Tu sei spaventato-
-Come?- mi domandò corrucciando le sopracciglia, bloccandosi di colpo.
-"Io non dovrei essere qui" "Voi non dovreste abbassarvi al mio livello" "Se qualcuno scoprisse che mi parlate accadrebbe il finimondo" dici sempre così, ma non mi hai mai chiesto cosa ne penso io a riguardo, perché non sempre un'azione porta ad una conseguenza negativa-
Mi avvicinai a lui, dalla sua stessa parte del tavolo.
-E cosa pensate?-
-Penso che io appartengo ad una classe sociale che non mi calza, ho un titolo nobiliare che se fosse nelle mie competenze strapperei come un pezzo di carta-
-E di me cosa pensate invece?-
Mi avvicinai ancora, fino a ritrovarmelo di fronte.
Era poco più basso di me, lo è sempre stato, potevo sentire il suo respiro incrociarsi con il mio, il battito cardiaco accelerare, lui indietreggiare.
-Penso che tu sia impaurito dai nobili, da noi, da me-
-No, non da voi, solo da loro-
-Allora perché non posso mai parlare con te liberamente?-
-Sarebbe sbagliato, ve l'ho detto altre mille volte- mi disse lui, fino a ritrovarsi con le spalle al muro, il mio corpo contro il suo, le dita che si sfiorano in un istante interminabile. Eravamo faccia a faccia.
-E io per altre mille volte ti dirò che non è sbagliato, nulla di quello che abbiamo fatto o detto lo è-
-Non voglio finire come lei, lo capite?-
-Non ho intenzione di metterti in pericolo- sussurrai a pochi centimetri al sua viso -Sono venuto qui solo per parlare, nessuno sa o saprà mai nulla-
-Se siete qui per parlare come dite perché non andiamo in salotto?-
-Tu sei venuto di qui, io ti ho solo seguito-
-Volevo solo prepararvi del tè, nulla di più-
-Allora perché non vai di là? Perché non te ne vai se hai così paura delle conseguenze?-
-Voi siete in casa mia, se mai dovreste andarvene voi-
-Vuoi che me ne vada?-
Non rispose, continuò a guardarmi negli occhi mentre i nostri corpi si stavano toccando, le nostre dita ormai erano vicine, la mia mano destra poggiata sulla parete, il suo respiro pesante che cadeva sul mio petto.
-Tu non vuoi che me ne vada- gli dissi io prima che potesse rispondere -Perché voi ve ne andreste davvero se io vi dicessi di non volervi qui?-
-No, non lo farei-
-Che siete venuto a fare realmente a casa mia allora?-
-Non lo so Geto, non lo so-
Gli poggiai una mano sul viso, scostandola dalla sua, poi gli accarezzai una guancia, lui non si spostò.
-So che vuoi quello che voglio io- gli sussurrai all'orecchio abbassandomi leggermente.
-Non lo so nemmeno io cosa voglio, non potete saperlo voi-
-Invece lo so perché per me è lo stesso-
Gli alzai il mento con due dita, gli osservai le labbra, poi gli occhi. Brillavano come non avevano mai fatto prima.

L'avrei fatto, quel giorno.
L'avrei baciato, senza altri indugi o paure, l'avrei voluto con tutto il mio cuore, sarà stato per l'alcol della sera precedente, per la mia poca sanità mentale di quel periodo, non ne ho idea, ma lo avrei fatto -Geto, io- gli sussurrai sulle labbra, prima che una bambina sul metro e quaranta uscì dalla porta della sua stanza.
Mi scostò, tirandomi una spinta che mi fece balzare dall'altra parte della stanza.
Non ebbe il tempo di vederci, per fortuna eravamo in parte coperti da una parete.
-A Mimiko è salita la febbre!- esclamó uscendo dalla cameretta dove era stata rinchiusa fino a quel momento.

Lui fece finta di nulla, continuando a sistemare le tazze che aveva precedentemente poggiato sul tavolo. Aveva le mani che tremavano. Io invece stavo mettendo un po' di acqua a bollire. Tutto di me e in me stava tremando.

Titubante si voltò, prima di prendere la mano della sorella.
-È meglio che andiate, ora- mi disse senza guardarmi mai negli occhi, lasciandomi l'amaro in bocca, senza che riuscii a dirgli nulla.
Poi lo vidi sparire dietro la porta come prima, in silenzio.

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