capitolo venticinquesimo

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Dopo la lunga discussione che ebbi con mia madre, non andai alla mia tenuta quella sera, non me la sentivo affatto.
Decisi piuttosto di rimanere in camera mia, da solo, senza mangiare o bere nulla, egoisticamente, senza pensare al fatto che forse Suguru sarebbe potuto essere lì, preoccupato per me, spaventato da ciò che mia madre mi avrebbe potuto fare.
Infatti senza quasi accorgermene, dopo che lei lasciò la mia stanza quel pomeriggio mi andai a sdraiare sul letto, togliendomi gli stivali, e buttandomi sul materasso a peso morto.

Cercai di reagire, mi sarebbe bastato qualsiasi tipo di stimolo, anche il più piccolo, per spingermi a fuggire da quella casa, in sella al mio cavallo, e non tornare mai piu.
Probabilmente, se Suguru fosse venuto a bussare alla porta di casa mia e mi avesse chiesto di scappare con lui, io me ne sarei andato, sarei fuggito lasciando alle spalle tutto e tutti. Mia madre, Utahime, Haibara, tutti.
Eppure quello stimolo, non arrivò mai e purtroppo uno dei miei più grandi difetti è sempre stato quello di attendere gli altri e non pensare mai con la mia testa.

Quando fuori era ormai già buio ed io riaprii gli occhi, notai come la finestra della mia stanza fosse aperta. Non mi ero accorto precedentemente che fosse spalancata, lo vidi solo quando mi risvegliai dalla dormita che mi ero appena fatto, sentendo il forte rumore del vento e la brezza che mi spostava prepotentemente i capelli.
Girai il capo verso la finestra, ancora con le palpebre pesanti, guardando fuori.
Stava piovendo, doveva aver iniziato da poco perché quando andai a sporgermi per osservare il cielo, metà di esso era ancora completamente sereno.
Rimisi poi la testa nuovamente all'interno di camera mia, chiudendo la finestra e andandomi a sedere sul letto.

Accanto a me, nel comò vicino al materasso, tenevo sempre una pipa per fumare in caso di ansia, stress o pensieri che pesavano nella mia mente come un macigno. Fumai proprio perché io in quel momento avevo quei pensieri per la testa.

Avevo i piedi incollati al terreno della mia stanza, incapace di abbandonarla come uno schiavo che lavora sotto il solo cocente con una palla di ferro alla caviglia.
Perché?
Perché non riuscivo a lasciare quel posto che ai miei occhi e al mio cuore era così angosciante, così soffocante?
Forse perché sapevo che io e Suguru non potevamo avere un lieto fine?

"Non sarà più un tuo problema, da qui in avanti" mi aveva detto come ultima cosa mia madre prima di lasciare la mia stanza, e quelle parole rimbombavano nella mia testa come tamburi.

Non ho provato a uscire da camera mia quella sera, nemmeno una volta. Il solo pensiero di poggiare la mano sulla stessa maniglia sulla quale l'aveva precedentemente poggiata lei, il diavolo in persona, mi faceva scottare il palmo destro. E nella mia testa bacata, credevo lei lì dentro mi ci avesse rinchiuso, come uno di quei stupidì racconti dove la matrigna cattiva rinchiude nella torre più alta del castello la principessa che vuole scappare non con il principe, ma con il mendicante della situazione.

Ma infondo lo sapevo, sapevo che sarei potuto uscire in qualsiasi momento, che lei non sarebbe stata fuori da quella porta a impedirmelo. Il suo era un avvertimento, voleva farmi capire che ne subirò le conseguenze sulla pelle, direttamente come una frustata sulla schiena che lascia un livido che con il tempo diventa cicatrice.
Questo flusso di pensieri era l'unica cosa che mi impediva di andare da lui, di correre tra le sue braccia, andare alla mia tenuta e dirgli "andiamocene, andiamocene via insieme".

La verità è che io avevo paura di mia madre. Temevo per la mia vita, egoisticamente ho pensato solo a me stesso e non a tutti coloro che mi circondavano.

Quando il tabacco nella mia pipa si esaurì, la poggiai accanto a me, alzando la schiena dal materasso e mettendomi dritto in direzione della porta.
La guardavo, guardavo ciò che mi divideva dalla mia felicità, o forse ciò che mi divideva dalla mia distruzione, dipende sempre da ciò che passava a mia madre per la testa.
Mi guardai le gambe, insultandomi, maledicendomi per non riuscire a muovermi.
"Alzati, idiota, che stai aspettando? Suguru è lí sicuramente, Suguru ti sta aspettando"

Pregavo, stavo pregando che arrivasse un messaggio divino che mi costringesse ad uscire da quella fottuta stanza.
Contavo i secondi, contavo i minuti, contavo le ore. E quando arrivai a due ore, trentasei minuti e quindici secondi, qualcuno bussò alla mia porta.

Stupidamente, ignorantemente, credetti che fosse Suguru, perciò balzai immediatamente in piedi. Ringraziai qualsiasi entità superiore a me per avermi mandato quel segno, per avermi fatto alzare.
Ripensandoci oggi, forse non avrei gioito così tanto. Forse me ne sarei rimasto su quel letto, con la mia palla al piede, guardando il soffitto e vedendo l'immagine di Suguru nel chiudere gli occhi.
Ripensandoci ora, non mi sarei alzato. Mi sarei incatenato alla testiera del letto, avrei chiuso le palpebre, avrei tappato orecchie e bocca, nella speranza di soffocare.

Quella notte, però, io decisi di alzarmi ed aprire ciò che divideva me, dalla felicità, o dalla distruzione più assoluta.
Aprii la porta con un sorriso, fiducioso nel genere umano, fiducioso che mia madre alla fine avrebbe ceduto, che alla fine Suguru sarebbe stato lì davanti a me, con il suo solito piccolo sorriso accondiscendente, il suo solito codino, insomma, lui.

Non ci fu nessun messaggio divino, nessuna entità superiore che ha deciso di gioire per me quella notte, di mandarmi l'amore della mia vita davanti alla porta, perché lì c'era solo Utahime, Utahime in lacrime, bagnata fradicia, mentre si teneva la bocca con una mano, l'altra sul cuore.

La guardai, la guardai per qualche secondo prima che mi cadesse esattamente davanti, a candela, finendo ai miei piedi in ginocchio.
Fu talmente veloce lo scatto con la quale cadde a terra che per un secondo, per un nano secondo, la persi di vista.
Quando abbassai lo sguardo stava strisciando per cercare di entrare nella mia stanza, ma immediatamente mi abbassai alla sua altezza e l'abbracciai. Senza chiederle cosa fosse successo, senza chiedere nulla la strinsi a me.
Forse perché in cuor mio, avevo già capito tutto.

Si staccò quasi di forza dalla mia presa, guardandomi dritto negli occhi.
-Mi- cercó di dire tra i singhiozzi -Mi dispiace- concluse poi portandosi entrambe le mani sul volto.
La andai a scuotere tenendola per le spalle -Che c'è?- cercai di chiederle nella speranza che rispondesse, che respirasse tra le lacrime.

Abbassò il capo, prostrandosi davanti a me, quasi per scusarsi, come se avesse fatto qualcosa.
Inutili furono i miei tentativi di farla rialzare, se ne stava ferma inginocchiata davanti a me.
-Mi dispiace così tanto- continuò tra i singhiozzi, portandosi nuovamente una mano al cuore.
-Utahime non so di cosa tu stia parlando-
E invece lo sapevo.
Lo sapevo perché ho avuto tutto il giorno un sentore strano. E meglio di chiunque altro io conoscevo mia madre.
-Io- iniziò nuovamente, venendo interrotta di tanto in tanto da sonori singhiozzi che rimbombavano in tutto il mio palazzo -Io sono arrivata tardi-
-Arrivata dove?-
Lo sapevo. Volevo solo sentirmelo dire.
Sapevo che quel giorno sarebbe arrivato prima o poi, ma non pensavo così presto, non pensavo in quella maniera.
-Non ce la faccio- singhiozzò -Sono così dispiaciuta-

La alzai di colpo per le spalle, costringendola a guardarmi negli occhi.
-Che cazzo è successo Utahime?!- le sbraitai contro con tutta la rabbia che avevo in corpo, mentre sentivo le sue braccia tremare sotto la mia presa.
Iniziò a respirare in modo affannato, velocemente.

-Si tratta di Geto-
Lo sapevo.
-Geto è-

13 agosto 1628
Ore 01:56 di notte.
Il mio cuore smise di battere.
I miei polmoni smisero di inalare aria.
Il sangue mi si gelò nelle vene.
Diventai un corpo senz'anima.

-Geto è morto-

ikigai || satosuguWhere stories live. Discover now