MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA

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Norah

Finalmente la primavera. La mia stagione preferita: il sole torna caldo, le giornate si allungano, i fiori fioriscono, l'estate incombe.

Aspettavo il ritorno dei miei amici, come ogni anno, ma questa sarebbe stata una stagione diversa: avevo imparato che non avevo più bisogno di distrazioni per stare bene.

Avevo imparato che bisogna conviverci con il dolore e cercare di superarlo con le proprie forze.

Io, però, non sono stata mai così forte e perciò, dopo la partenza di Elia, mio papà mi aveva suggerito di vedere uno psicologo.

La sua assenza era insopportabile.

Guardare oltre la mia finestra e non vederlo gironzolare era straziante.

Salutare i suoi genitori e guardare il sorriso di sua mamma - così simile a quello di Elia - mentre mi chiedeva come stavo era insostenibile.

Il mare era tornato mostruoso perché senza di lui non volevo più affrontarlo.

Il manga non lo avevo terminato perché non ero mai pronta a dargli un finale.

A vedere il nostro di finale.

Non potevo più usare la scusa dei fumetti per vederlo perché lui non c'era, da nessuna parte.

Era lontano, così lontano d'aver scordato anche il suo buon profumo.

A ogni piatto preparato, a ogni film guardato, a ogni passo fatto, a ogni respiro, senza di lui, pensavo a quanto tempo avevo perso.

Se avessi saputo che il nostro era così ridotto avrei vissuto Elia Stone fino all'ultimo secondo. Fino all'ultima goccia di oceano.

Ciò che mi facevano compagnia erano le lacrime. A ogni piatto preparato, a ogni film guardato, a ogni passo fatto, a ogni respiro, perciò avevo preso in considerazione il suggerimento di mio padre: andare in terapia.

«Cloe conosce questa dottoressa. Dice che è molto brava e comprensiva.»

Così mio papà mi aveva convinto anche a incontrare Cloe. E Dopo un breve periodo di mutismo selettivo, accettai.

Cloe era dolce, simpatica, determinata, amante dei film e delle serie TV. Le piacevo e lei piaceva a me.

Non la consideravo come una seconda mamma, più un'amica. E poteva bastare per provare a fidarmi di lei.

Stessa cosa cercai di fare con la mia psicologa anche se non sempre ero disposta ad aprirmi e a dire la verità.

Non sapeva che - dopo la gravidanza di Shell - avevo tenuto un cucciolo e l'avevo chiamata Alaska, come quel pastore tedesco al quale Elia si era affezionato da bambino.

Non sapeva che spesso passavo le notti insonne a guardare le sue foto scattate in Australia.

Non dicevo che più lo vedevo felice e più stavo male.

Non dicevo che una parte di me avrebbe preferito che si sentisse così solo e sbagliato in quel posto da tornare dopo una settimana.

Non dicevo che odiavo i suoi video fatti da Zac mentre surfava, o di loro due mentre esploravano posti meravigliosi.

Non sapeva che odiavo tutta la sua nuova compagnia: riconobbi anche l'australiana che aveva baciato a una festa qui mesi prima.
   
Elia era raggiante con accanto il mare adatto per surfare, il sole, l'abbronzatura.

Stava bene senza la sua famiglia.
E senza di me.
   
Certo, se avessi detto alla mia psicologa che mi chiamava ogni notte quando da lui era giorno, forse mi avrebbe detto che probabilmente non stava tanto bene senza di me.
   
E mi avrebbe detto la stessa cosa se le avessi fatto leggere i numerosi messaggi chilometrici.
   
E se le avessi fatto vedere le chiamate di giorno mi avrebbe detto che a causa mia stava sveglio di notte per sperare in una risposta, che non diedi mai.
   
Gliel'ho detto oggi, però, a Ally.
La dottoressa Ally. Per me salvatrice.

Gliel'ho forse rivelato perché è primavera e tutto in questa stagione fiorisce, io compresa.
   
Mi fidavo abbastanza da non voler più segreti con lei. E mi sfogai per davvero.

Non volevo più essere arrabbiata con Elia.

Volevo solo dimenticarlo.

Lasciarlo andare, come lui mi aveva suggerito di fare con mia mamma tramite quella lanterna.
   
Mi tolsi un grande peso. Un'àncora pesante addosso.
   
Potevo provare ad andare sott'acqua senza la paura di annegare: ero leggera.
   
Non avrei aspettato lui, perché non sarebbe tornato.
   
Non volevo più un'àncora addosso, volevo saper galleggiare da sola.
   
Tolsi le scarpe e i vestiti. Restai con addosso il costume arancione: il preferito di Elia.

I miei piedi toccarono la sabbia e, in completa solitudine e pace, arrivai a riva.

Bagnai le caviglie, le ginocchia, l'addome e immersi le spalle.

L'acqua era ancora fredda ma niente avrebbe rovinato quel momento.

Con l'atmosfera del sole calante - che mi ricordava dei nostri baci - mi immersi.
   
Elia aveva ragione: il suono ovattato porta via ogni rumore del mondo.

E come aveva detto lui: "Porta via i problemi e i brutti ricordi".
   
Lui non era per me un brutto ricordo ma, visto che era ormai un ricordo, era anche un grosso problema, perciò li lasciai all'oceano.
   
I nostri momenti. Il suono delle risate. Il rumore dei litigi.
   
Gli lasciai il mio amore per lui.
   
Forse l'avrebbe raggiunto in Australia, come un messaggio dentro a una bottiglia.
   
Se mai dovesse leggerlo, lui e l'oceano sapranno che lo amo ancora.    

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SPAZIO AUTRICE

Coraline; Maneskin:
"Però lei sa la verità
Non è per tutti andare avanti
Con il cuore che è diviso in due metà
È freddo già
È una bambina però sente come un peso
E prima o poi si spezzerà
La gente dirà, "Non vale niente"
Non riesce neanche a uscire da una misera porta
Ma un giorno, una volta,
lei ci riuscirà."

Norah ci è riuscita.

Questo capitolo è breve, lo so, ma credo che racchiuda ogni cosa che ha fatto del male e paura a questa protagonista,
superando ogni cosa.

Certo, l'amore per Elia non l'ha proprio superato.

Chissà se riceverà mai quel
"messaggio nella bottiglia".

So che sperate in un bel prologo.

A giovedì,
con la fine di questa storia
🌊🏮🐚💙

ANCORAWhere stories live. Discover now