CAPITOLO VENTITRÉ

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Ho freddo.
Mi attorciglio le coperte attorno al corpo ma non riesco a scaldarmi abbastanza. Strano, non ho mai freddo di solito.
È l'alba e tutti stanno ancora dormendo profondamente.
Mi alzo per cambiarmi i pantaloncini con qualcosa di più lungo e caldo. I miei passi sembrano pesanti il doppio nel silenzio del dormitorio, troppo in effetti.
Mi volto verso il letto di Al e vedo che è vuoto, è l'unico.
Mi assale un'improvvisa agitazione. Dove può essere da solo a quest'ora?
Vado a controllare in bagno ma non c'è nessuno. Esco dalla camerata con il cuore che accelera sempre di più. Percorro velocemente i corridoi ancora più bui del solito, guardandomi disperatamente attorno.
Forse non è niente, mi sto preoccupando troppo.
Magari aveva solo bisogno di una passeggiata per schiarirsi le idee, anche se so bene che Al non è il tipo da passeggiate notturne.
Arrivo al Pozzo stranamente vuoto e silenzioso, il freddo qui mi fa venire la pelle d'oca. Continuo a camminare lanciando occhiate a destra e a sinistra.
C'è un gruppetto di uomini raccolti sul ciglio dello strapiombo, stanno guardando tutti giù.
«Portate dello corde per tirarlo su» dice un Intrepido massiccio con la voce rauca.
Mi avvicino rabbrividendo, non solo per il freddo.
Voglio davvero vedere che cosa, o meglio chi, devono tirare su?
Gli uomini sembrano non fare caso a me e quando uno si allontana io prendo il suo posto.
Guardo giù,  verso l'acqua nera e impetuosa.
In un primo momento non vedo niente, poi la individuo. È una grande massa scura che galleggia. Guardando bene si possono distinguere anche le braccia e le gambe aperte.
Non è solo una massa, è una persona con la faccia rivolta nell'acqua.
È una persona morta.
Mi viene un forte senso di nausea.
Potrebbe essere chiunque, la faccia  non si vede; ma è così ovvio che è Al.
Come non può essere Al, grande e grosso com'è quel corpo?
Arrivano altri uomini con delle corde e subito si sparge la voce.
Ben presto una folla di curiosi viene ad assistere al recupero di un cadavere.
Chissà quanti ne vedono ogni anno.
Io rimango ferma dove sono, incapace di muovermi.
Voglio vederlo in faccia ed essere sicura che sia lui.
Lo issano a fatica, Al è pesante.
Lo lasciano cadere sulla pietra fredda.
Non ha più niente dell'Al che ho conosciuto, quel ragazzone fragile, insicuro e gentile. Ora è solo un corpo pallido e gonfio, con le labbra e le unghie blu e gli occhi fissi nel vuoto, incapaci di vedere qualcosa.
Ne ho abbastanza.
Attraverso il Pozzo. Vorrei correre, ma mi trattengo.
Arrivo fino alla camerata e la supero, imbocco lo stretto corridoio e lo risalgo finché non arrivo sul tetto dell'edificio.
Il sole sta facendo capolino tra gli edifici e colora il cielo e le nuvole di mille sfumature.
Mi siedo sul bordo, con le gambe a penzoloni nel vuoto.
Vorrei pensare a qualcosa, ma non ci riesco.
Mi rendo conto di essere in cima ad un palazzo, vestita solo con una canotta e dei pantaloncini.
I talloni nudi toccano la facciata fredda.
È tutto così freddo, oggi.
Improvvisamente mi viene in mente a cosa devo pensare.
Al si è suicidato buttandosi dallo strapiombo. È morto e io non ho fatto niente per fermarlo.
La mia vista si annebbia.
Dovrei sbattere le palpebre e lasciare cadere le lacrime, ma aspetto che scendano da sole.
Tra i Pacifici c'è una preghiera che si recita quando una persona muore, per augurarle un'esistenza migliore dovunque vada dopo la vita. Non mi sono mai interessata alla religione, ma ora come ora vorrei averla imparata.
Nella mia ormai ex fazione si presuppone che l'essere in armonia con gli altri sia una diretta conseguenza dell'essere in pace con sé stessi.
Al voleva vivere in tranquillità con la gente, ma non aveva ancora fatto i conti con sé stesso.

Non so esattamente quanto tempo è passato, sono rimasta a piangere in silenzio e nel frattempo il sole si è alzato e i suoi raggi hanno cominciato a riscaldarmi.
Una parte dentro di me pensa che non sia giusto che io mi riscaldi, mentre Al non potrà farlo mai più. Lo so, è un pensiero stupido, dopotutto io sono viva e lui no.
È ora di rientrare e affrontare la realtà in mezzo agli altri.
Torno al dormitorio che questa volta, per fortuna, è vuoto. Mi cambio i vestiti, infilo le scarpe ed esco.
Si sente un gran trambusto provenire dal Pozzo e preferisco non entrarci.
Gironzolo per i corridoi come sempre, faccio la strada che ho sempre fatto con la stessa andatura di sempre.
E domani?
Chi verrà a fare colazione con me?
Chi mi terrà compagnia nel tavolo più isolato della mensa?
Chi riderà del mio aspetto assonnato?
Intorno a me sembra che non sia cambiato niente, ma nulla sarà più come prima.

DIVERGENTEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora