CAPITOLO TRENTA

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Entro nella stanza delle simulazioni e chiudo gli occhi, senza pensare a cosa potrei trovarmi davanti; ho il cuore che sembra un martello dentro al petto, ma non ci faccio caso più di tanto.
Sono pronta.

Sono distesa a pancia in giù, l'erba umida mi solletica la guancia. Mi alzo in piedi e vedo il sentiero battuto tanto familiare che ho percorso almeno centinaia di volte, è la via più breve per andare a casa mia uscendo dal frutteto. Lo percorro correndo, senza soffermarmi a pensarci due volte. La piacevole brezza fresca mi scompiglia i capelli e mi sento libera come non lo sono mai stata. Mi sembra di essere stata privata dell'aria fresca per troppo tempo.
Quando apro la porta di casa mi sento leggera, lontana da ogni preoccupazione e spensierata.
«Mamma!» la chiamo con tutta la gioia che può esprimere una voce, poi rimango in silenzio nell'entrata, aspettando una risposta che non arriva.
Mi avvio verso la cucina ascoltando il silenzio che si fa sempre più inquietante passo dopo passo. Quando entro nella stanza, mi ritrovo davanti un altro corridoio. Lo percorro spaesata e ritorno al punto di partenza. Continuo a camminare e mi ritrovo a percorrere gli stessi due corridoi, sempre più stretti e bui.
Il cuore prende ad accelerare. Come farò ad uscire da qui?
Tasto le pareti con le mani che mi tremano. Niente, non c'è una via d'uscita.
Il respiro si fa affannoso, mi appoggio alla parete e cerco di capire come possa essere successo mentre il panico mi assale.
"Simulazione"
All'improvviso mi viene in mente, sono nello scenario della paura; tutto questo non è reale e posso farlo finire facilmente.
Mi siedo per terra, portandomi le gambe al petto e circondandole con le braccia. Chiudo gli occhi e inspiro profondamente, poi espiro e cerco di controllare il respiro.
Sapere che è tutto finto mi aiuta moltissimo e nel frattempo cerco di pensare ad altro per distrarmi.
Che strana paura che ho, il terrore di rimanere bloccata in un luogo famigliare che all'improvviso non lo è più.
Quando sono certa di essermi calmata, alzo la testa e apro gli occhi.

Non sono più nel corridoio di casa mia, bensì appena fuori dalla recinzione. Appena mi alzo sento i piedi che sprofondano. Guardo in basso e vedo la terra sotto di me farsi come una sorta di miscuglio fangoso che mi trascina giù. In poco tempo mi ha già ricoperto le caviglie e non riesco a muovere le gambe.
Mi guardo attorno in cerca di aiuto, davanti a me sono comparse alcune persone: i miei genitori, Johanna, la piccola April e altri Pacifici che conosco. Mi guardano con le braccia incrociate mentre affondo nella terra.
«È questo che succede quando non vuoi bene alle persone che hai accanto, se hai bisogno di aiuto nessuno viene in tuo soccorso» la voce di Johanna non è la solita, è fredda, quasi crudele «È tutta colpa tua, tu l'hai voluto, Christal»
Sento la rabbia ribollirmi dentro sempre di più.
«Hai paura, Christal?» questa volta è mia madre a parlare; mi guarda con occhi vuoti, senza nessuna espressione.
Vorrei urlare che è solo una simulazione, che non ho paura di qualcosa che non esiste, ma non posso. So perfettamente che mi stanno osservando, non posso far capire che sono consapevole di essere in una simulazione.
«Non ho paura di morire» dico semplicemente e queste parole mi confortano, come se ci credessi davvero.
Il battito rallenta.
È così facile quando sai che non è reale.

Una sferzata di vento mi scompiglia i capelli davanti agli occhi. Mi guardo intorno e vedo l'acqua di un canale scorrere placida. Lungo la sponda del canale, una bambina mi sta osservando. Ha i lungi capelli biondi sciolti e mossi dal vento, indossa un vestito beige semplicissimo, che le arriva fino alle caviglie.
La riconosco subito e mi avvicino.
«April?» dico un po' titubante; i suoi grandi occhi azzurri sono vuoti, completamente inespressivi.
«Mi hai abbandonata» quando dice questo, i suoi occhi si posano sui miei, ma sembrano star guardando qualcosa aldilà di me.
«No, non è vero!» provo una fitta di rimorso non indifferente.
«Si, invece» fa un passo verso l'acqua che nel frattempo, inspiegabilmente, si è fatta agiata e scura.
«Cosa stai...» non faccio in tempo a terminare la frase che lei si è già buttata.
Senza pensarci la seguo.
L'acqua è gelida e la corrente è forte, cosa assolutamente innaturale per un canale dei Pacifici.
"Simulazione" mi torna in mente.
Nuoto con tutta la forza che ho, senza il minimo timore di poter affogare. Vedo una massa indistinta di fronte a me, allunga la mano e afferro un lembo del vestito di April. La cingo con un braccio mentre con l'altro mi aggrappo alla sponda e mi isso.
La appoggio sulla terra fresca, mentre io rimango nell'acqua dalla vita in giù, respirando affannosamente; mi sento stanchissima e i miei muscoli si rifiutano di muoversi.
"Basta, voglio passare al prossimo scenario" per un momento ho il terrore di averlo pensato ad alta voce, poi mi accorgo che non ho la forza neanche per muovere le labbra.
Chiudo gli occhi. Respiro.

Sono aggrappata a delle rocce fredde e bagnate. Sento il fragore dell'acqua attorno a me e un peso enorme cerca di trascinarmi verso il fondo.
Guardo giù e il mio cuore perde un battito.
Al penzola nel vuoto, stringendo una corda che è annodata intorno alla mia vita.
Mi guardo attorno terrorizzata. Siamo dentro allo strapiombo, sotto di noi c'è la morte e in alto la salvezza.
Cerco di issarmi ma non ce la faccio, è troppo pesante.
«Taglia la corda con il coltello!» la voce di Al mi fa rabbrividire. Mi accorgo di avere un coltello al fianco e questo mi fa ricordare che mi trovo in una simulazione.
«No!» grido. Sono consapevole che lui è morto, che questo non è reale, ma non posso farlo.
«Non puoi salvarmi, Christal. Taglia la corda.»
Le lacrime mi offuscano la vista mentre prendo il coltello.
Mi stanno guardando, questo è quello che vogliono. Vogliono che un vero Intrepido sia pronto a fare dei sacrifici per portare a termine una missione.
«Mi dispiace, Al» sussurro.
Chiudo gli occhi mentre taglio la corda, mi sento improvvisamente più leggera mentre il tonfo del corpo di Al che infrange l'acqua mi rimbomba nelle orecchie.

Quando riapro gli occhi mi ritrovo in uno stretto corridoio buio. Di fronte a me c'è Peter, nell'ombra una pistola luccica nella sua mano.
Indietreggio e mi appoggio ad un muro; il corridoio è un vicolo cieco, l'unica porta è dietro a Peter.
«Ciao, Chris» dice avvicinandosi con un ghigno.
Appoggia la mano libera vicino alla mia testa, la sua faccia è a pochi centimetri dalla mia.
«Che c'è? Sembri spaventata» la sua voce è calma e ha un che di canzonatorio.
«Non sono spaventata» dico duramente mentre sguscio sotto il suo braccio, non mi piace per niente essere messa con le spalle al muro.
«Quindi non hai paura di me?» sorride, ma è un sorriso inquietante, cattivo.
«No.» l'agitazione mi assale, voglio andarmene.
«Se ti fidi di me, voltami le spalle ed esci.»
Mi giro riluttante e mi avvio verso la porta, tenendo tutti i muscoli tesi.
Sento uno scatto, quello di una sicura che viene tolta.
Mi volto immediatamente e vedo Peter che mi punta la pistola dritta in faccia.
«Tu menti. Non ti fidi di me» e spara.

DIVERGENTEWhere stories live. Discover now