SEI TU LA MIA FAMIGLIA

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POV NADINE

Mentre aspettavo di avere gli esiti della TAC andai in accettazione per controllare le cartelle di alcuni pazienti in attesa di trapianto, e di altri due che erano stati trasportati in elicottero a causa di una sparatoria. Il reparto di terapia intensiva disponeva di dodici box e quella mattina erano tutti al completo. Le infermiere correvano per i corridoi trasportando sacche di sangue e defibrillatori, tentando di ignorare i familiari delle vittime che, nel panico più totale, cercavano risposte e rassicurazioni da chiunque indossasse una divisa. Era anche quello il nostro compito: rassicurare senza mai dare false speranze.

Illudere un parente della buona riuscita di un'operazione equivaleva a distruggere con ancor più violenza le sue speranze nel caso di un decesso. Bisognava restare sul vago e sorridere. Sempre. Anche quando il panico minacciava di farti crollare in ginocchio. Bisognava guardare quegli occhi speranzosi senza perdere la lucidità, mantenendo un distacco che il più delle volte ti dipingeva come l'essere umano meno compassionevole sulla faccia della terra. Alcuni medici riuscivano a trasformare i pazienti in numeri, catalogandoli in base ai traumi, ma c'era chi, come me, era incapace di dimenticare che prima di ogni cosa erano persone con una vita. Una vita che, dal momento che entravano in ospedale, dipendeva in tutto e per tutto dalle nostre abilità mediche. Sapevo benissimo che la compassione era una dote pericolosa in un medico perchè rischiava di farti perdere il controllo proprio mentre c'era più bisogno di assoluta concentrazione. Ma nonostante la maggior parte dei pazienti avesse la semplice necessità di carrelli per le emergenze e di defibrillatori, fuori dalla porta delle sale operatorie restavano i familiari. Ed erano loro che avevano il bisogno estremo di comprensione e tatto, sebbene non ci fosse una prassi precisa per dire ad una madre che aveva perso suo figlio o ad un marito che la propria moglie era morta in seguito ad uno stupro. 

 Nel mio breve tirocinio avevo perso pochissimi pazienti, ma erano bastati per rafforzare il mio lato umano. Vedere una vita spegnersi sotto il tuo bisturi, se da una parte ti scoraggiava, dall'altra ti dava la carica essenziale per ritrovare le motivazioni che ti avevano spinto a scegliere la facoltà di medicina. Ovvero  salvare vite umane. 

"Salvare vite umane", mormorai, fermando gli occhi sull'ennesima cartella clinica. Come potevo quindi valutare l'ipotesi di sbarazzarmi della vita che portavo in grembo? 

"Dottoressa Low?". In mezzo all'alto vociferio di medici e familiari distinsi chiaramente la voce del primario.

Il dottor Torrence si piazzò alle mie spalle, attendendo che rimettesi a posto la cartella clinica prima di indicarmi la sala caffè con un dito.

"Venga con me", ordinò, avviandosi.

Lo seguii cercando di mantenere la calma, ma dentro di me stava montando il panico. Appena entrammo due tirocinanti ci fissarono spaventati, come se li avessimo appena colti in fallo mentre in realtà stavano solo dividendosi un tramezzino. 

"Fuori", bofonchiò il primario, spalancando ancora di più la porta.

I due mi passarono accanto, lanciandomi occhiate preoccupate e al limite del pietoso, quindi scomparirono, richiudendosi la porta alle spalle. Potevo immaginare cosa passasse loro per la testa. Quando al capo giravano male, non c'era nessuna speranza di uscire indenni da un colloquio privato con lui. Il fatto stesso poi che non avesse voluto parlarmi nel suo ufficio, la diceva lunga sul suo cattivo umore.

"Cosa pensa di fare?", domandò a bruciapelo, dando per scontato che sapessi a cosa si riferiva.

"Ho sbagliato qualcosa?". Dio santo, tremavo così tanto che persino la mia voce traballò. Odiavo fare la parte della donna timorosa, ma d'altra parte il dottor Torrence era ancora capace di far piangere i migliori chirurgi presenti in quell'ospedale da più di vent'anni.

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