Parte 2 ~ Psiche

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Un raggio di sole si era insinuato tra la morbida tenda di cotone un po' logora, aveva colpito lo specchio dalla cornice dorata appeso alla parete e poi accarezzato il tasto del pianoforte a cui Psiche era seduto.

Il giovane osservò il bianco farsi più chiaro e, per contrasto, il nero del Do diesis scurirsi. Il bianco e il nero dei tasti gli parvero ebano e madreperla, e per lui lo strumento valeva quanto e più di quei materiali pregiati. Accarezzò i tasti, osservando al contempo lo spartito di fronte a sé. Si udì nell'aria una dolce melodia. Era una nota stonata nella piccola casa in muratura a cui era annessa una fattoria e dove era più probabile sentire le urla di suo padre o dei suoi fratelli che cercavano di farsi ubbidire dagli animali. Qualche volta le urla erano rivolte anche a lui, perché non voleva dedicarsi a tempo pieno all'attività di famiglia e aveva deciso di iscriversi a una scuola di musica. Per i suoi diciannove anni Psiche era un ragazzo deciso, troppo, e questo suo padre e i suoi fratelli non glielo perdonavano. Questo e il suo aspetto. Psiche allontanò le mani dal piano, le portò al volto. Toccò i lineamenti regolari, la pelle candida e perfetta, gli zigomi cesellati, ma non troppo pronunciati. Premette un dito nella sua pelle morbida e profumata, la tentazione di affondare le unghie, di deturpare il suo stesso volto, lo invadeva ogni volta che pensava al destino che gli dei gli avevano riservato.

Il cigolio della porta lo riscosse. Sulla soglia apparve una donna alta dalla corporatura proporzionata e dagli occhi di un azzurro intenso e dolcissimo. Era lo stesso colore che Psiche vedeva nei propri ogni volta che si specchiava, così come vedeva lo stesso castano dorato dei suoi capelli. Ma, in fondo, non si assomigliavano poi così tanto. Perché Psiche non poteva essere come tutti i suoi fratelli? Perché non poteva avere un volto squadrato, virile, dalla pelle martoriata dal sole e i segni della fatica? Perché non poteva avere le loro stesse mani bitorzolute? La loro stessa mala grazia nei movimenti?

Sua madre si avvicinò e sedette sullo sgabello del pianoforte, giusto accanto a suo figlio. Sollevò una mano e la passò tra i suoi capelli. Quel gesto di affetto mitigò il risentimento che Psiche provava verso il fato. Sua madre era bella, ma di una bellezza discreta e, a differenza della sua, una bellezza che non avrebbe mai suscitato le ire e l'invidia degli dei. La bellezza di sua madre era una benedizione, la sua, invece, una maledizione. Agli dei non piaceva chi eccelleva come loro, qualsiasi fosse il campo. Gli dei trovavano sempre tempo, tra le loro guerre per dominare gli uni sugli altri e sugli umani, per punire chi osava ribellarsi e sfidarli, anche se involontariamente. L'elenco di persone la cui vita era stata cancellata con un colpo di spugna era lungo: Aracne era solo una delle tante che Psiche ricordava, punita per aver superato in bravura la dea Atena nell'arte della tessitura.

«Dovresti uscire a dare una mano ai tuoi fratelli», sua madre lo riscosse.

Psiche si morse le labbra. Non voleva darle un dolore, ma di certo lei si era resa conto di come stavano le cose. «I miei fratelli preferiscono fare da soli», si limitò a dire. Spiegarle ad alta voce che lo invidiavano e lo facevano oggetto delle più becere prese in giro gli avrebbe fatto troppo male.

La donna sospirò, piegando appena le sue labbra rosee verso il basso. La sua mano risalì sulla testa di Psiche. «I tuoi fratelli sono duri con te, perché credono così di insegnarti meglio il lavoro».

Lui evitò il suo sguardo e lo posò sugli spartiti e sul pianoforte. Se aveva lo strumento musicale lo doveva solo a sua madre che aveva a lungo insistito con il resto della famiglia. Il periodo non era dei migliori da un punto di vista economico e Psiche doveva ammettere che la spesa per assecondare il suo desiderio era stata ingente. Tuttavia era l'unica cosa che avesse mai chiesto per sé. Sapeva anche che suo fratello più grande aveva suggerito più volte di venderlo per risanare la situazione economica, ma sua madre si era sempre opposta.

Psiche si alzò. Per quel giorno avrebbe lasciato stare il piano e le nuove melodie che ronzavano quasi senza sosta nella sua testa, e avrebbe aiutato la sua famiglia, ingoiando le frecciatine che i suoi fratelli gli avrebbero rivolto.

«Sono nella stalla?», domandò.

Vide sua madre annuire, ma i tratti del suo volto non si erano rilassati, adesso aveva persino incrociato le braccia sul petto, vestito di una camicetta di mussola.

«Tutto bene, mamma? Abbiamo ancora problemi di soldi?», lui indagò.

Un altro sospiro a cui questa volta si accompagnò un velo di malinconia e forse di lacrime che le fece luccicare gli occhi.

«Vai adesso. Ne parliamo dopo, a cena», la donna disse e uscì rapida dalla stanza.

Psiche osservò per un attimo il paesaggio fuori dalla finestra. Le colline in lontananza nascondevano alla vista il mare della costa occidentale greca. Eppure Psiche qualche volta aveva l'impressione di sentirne l'odore, l'odore salmastro e di iodio inconfondibile, che gli bruciava i polmoni. In quei momenti si faceva in lui intenso il desiderio di lasciare la regione dell'Elide e il suo piccolo villaggio poco distante dalla città di Olimpia. Sognava di risalire le montagne del Peloponneso e di guardare la Grecia da lassù, sognava di raggiungere Atene, nonostante gli facesse paura avvicinarsi tanto agli dei e alla città che essi aveano reclamato.

Poco lontano vide i pascoli e un gruppo di pecore dal manto soffice e bianco scorrazzare controllate a vista da un pastore maremmano, bianco come loro, ma molto più feroce. Le ombre degli alberi da frutto e degli ulivi si allungavano sul terreno e la luce radente del primo pomeriggio sfumava in una morbida carezza che avvolgeva i monti e la fattoria.

Psiche afferrò un vecchio giubbotto di jeans per proteggersi dal vento che si stava alzando e che veniva dal nord. A marzo le giornate non erano ancora avvolte dall'afa estiva né dalla dolcezza tiepida della primavera.

«Alla buon'ora!», esclamò suo padre, intento a mettere la legna da parte. Aveva una corporatura tarchiata e un viso grassoccio, che un tempo doveva essere gradevole, ma che adesso era avvizzito dal tempo inclemente.

Psiche abbassò lo sguardo per non incontrare i suoi occhi. Il modo in cui suo padre lo scrutava lo metteva a disagio, era come se ogni volta lo accusasse dei lineamenti delicati, della bellezza che non passava inosservata, delle sfumature di miele che accendevano i suoi capelli. Dio solo sapeva quante volte aveva sottoposto sua madre a umilianti interrogatori per farsi confessare un'infedeltà che lei non aveva mai commesso.

«Questo figlio non è stato generato da umani», le aveva urlato una volta, e lei era rimasta muta, incapace di ripetere ancora che non aveva commesso alcuna colpa e che se una colpa andava cercata allora era del fato e degli dei che si prendevano gioco di loro.

«I tuoi fratelli sono nella stalla», l'uomo aggiunse con tono sprezzante.

Psiche si diresse verso la struttura con il cuore pesante.

Amore & Psiche (gay story)Where stories live. Discover now