Parte 4 ~ Occhi nel buio

2.1K 134 5
                                    



L'acqua gelata intanto aveva impregnato i vestiti e Psiche sentiva la sua pelle, di solito profumata, emanare un cattivo odore di fieno sporco e di animale. Non voleva rimanere lì un minuto di più.

Preferiva morire che sottomettersi al volere di suo padre o sopportare ancora le carognate dei suoi fratelli. Voltò loro le spalle e uscì dalla stalla, per fortuna gli fu risparmiato di incrociare suo padre in quelle condizioni. Lo spiazzo davanti alla struttura era vuoto, e in lontananza si udivano i latrati del pastore maremmano che cercava di non far disperdere le pecore. Era ora di tornare all'ovile, ora per tutti gli animali di posare le membra stanche e trovare un poco di sollievo alle fatiche quotidiane. Psiche sapeva che lui non avrebbe potuto dormire. Temeva persino di parlare a sua madre, perché se lei non fosse stata dalla sua parte, sarebbe stato per lui un dolore insopportabile. Senza di lei e la sua comprensione era solo. Non aveva voglia di rientrare in casa. La pelle era scossa da brividi, i denti battevano, ma alla luce morente del sole di marzo cominciò a camminare, sempre più in fretta. Voleva solo mettere quanta più strada possibile tra sé e la fattoria. Sopportò gli sguardi sconcertati di chi incrociava la sua strada, proprietari di altre fattorie o di botteghe che avevano aperto le loro attività poco fuori il villaggio di Olimpia.

Olimpia era come lui, condannata dagli dei a una vita infelice, terreno del loro volere e del loro capriccio. Olimpia era una grande città un tempo, sede, millenni prima, delle prime edizioni dei giochi, che ora venivano ospitati in tutto il mondo e attiravano soldi e atleti. Abbandonata e vittima dell'incuria dei secoli, terreno di battaglie tra gli dei che combattevano infinite faide tra loro, incuranti di affamare in questo modo il paese, le uniche tracce dell'antica grandezza si scorgevano nei resti delle colonne in stile dorico del grande tempio dedicato a Zeus, nelle statue del grande Fidia e nei resti dei pannelli scultorei che ornavano il tempio. Ora le sculture erano conservate in un apposito museo, trofei che gli uomini erano riusciti a strappare alla guerra divina che infuriava da secoli.

Psiche attraversò i pascoli, gli animali smagriti erano un'ulteriore prova dell'egoismo degli dei: la guerra per il controllo delle varie zone di influenza loro la combattevano senza esclusione di colpi. Afrodite per fare un dispetto ad Atena era ben capace di far portar via tutti gli uomini e le donne più belle dalla zona che Atena governava, Atena dal canto suo non avrebbe esitato a far scoppiare il caos nella terre sotto l'influenza della dea dell'amore, Demetra a sua volta, per vendicarsi dell'ultimo torto subito da Afrodite, che controllava Olimpia, aveva reso scarsi i raccolti, bruciato le messi prima che potessero essere salvate dalle mani industriose degli uomini. E a loro, gli uomini, che rimaneva da fare? Subire e sopportare in silenzio, avrebbe detto sua madre.

La vendetta di Demetra aveva colpito anche i pascoli, e questo spiegava perché ad alcuni animali si vedessero le ossa. Inclusi quelli della sua fattoria. Psiche comprendeva le preoccupazioni economiche di suo padre, ma non era giusto che ci andasse di mezzo lui.

Prese a correre a perdifiato per impedire che le lacrime solcassero il suo volto. Pensava che se avrebbe corso in quel modo non avrebbe avuto l'energia di piangere. Attraversò il lungo viale costeggiato di ulivi, salì le scale in pietra, un tempo ingresso di un maestoso edificio, adesso ruderi abbandonati a cui neanche i turisti facevano attenzione. Le ombre si allungavano sempre di più sul terreno e il vento si alzava più intenso e freddo, ma Psiche non aveva intenzione di tornare indietro. Si sentiva umiliato e sporco, il fieno maleodorante gli aveva riempito le narici con il suo tanfo.

Entrò nella zona boschiva poco lontana dal villaggio, dove i pini svettavano lussureggianti di verde smeraldo. Gli uccelli si rincorrevano in cielo, assordando l'aria dell'ultimo canto con il quale salutavano il sole e accoglievano il tramonto. Chissà se lo facevano disperando o al contrario perché avevano fiducia nel futuro ed erano sicuri che il sole sarebbe tornato ancora dopo le ore più buie della notte. Gli sarebbe piaciuto, se quello era il caso, avere la loro stessa fede nel domani, e invece...

Arrivò finalmente alla meta, un laghetto in parte coperto da ninfee, posto in un angolo appartato, protetto da un costone di pietra che dava vita a una collina. Come aveva previsto la corsa lo aveva sfiancato e non aveva più le energie per piangere, la gola gli faceva male. Si accasciò sulla sponda dello specchio d'acqua, che ancora era in grado di riflettere le chiome degli alberi e il suo volto. Il volto che il mondo gli aveva fatto odiare. Si fermò a osservarlo, i contorni del viso erano resi indefiniti dall'acqua che si increspava per via del vento, ma gli occhi, come due gemme di acquamarina, vi brillavano ancora ed erano sufficienti a rivelare tutta la sua bellezza. Con un gesto di stizza Psiche immerse la mano nell'acqua e cancellò il suo riflesso. Gli avevano raccontato di Narciso, che millenni fa si era gettato in un lago pur di toccare l'immagine del proprio volto che tanto amava. Anche lui si sarebbe gettato e affogato in quel lago, ma per la ragione opposta.

Nonostante il freddo, si spogliò dei suoi vestiti. I brividi affioravano sulla sua pelle, ma Psiche voleva rinfrescarsi e togliersi di dosso l'odore della stalla. Il suo corpo nudo, poco muscoloso, che non avrebbe sfigurato davanti a quello di Adone, l'amante di Venere, era riflesso nell'acqua. Psiche vi infilò un piede, strinse i denti e pian piano si immerse fino alla vita. Sentì i battiti del cuore rallentare, le narici libere dall'odore del fieno percepivano adesso la fragranza dell'erba e dei pini, e quella più dolce dei primi fiori selvatici. Lo sguardo di scherno dei suoi fratelli era però ben impresso nella sua mente così come la terribile prospettiva di essere ceduto in sposo a un estraneo disposto a pagare una bella cifra. Senza il suo consenso. Scacciò via quei pensieri. La soluzione sarebbe stata scappare via, lontano, non vedere più sua madre, non poter suonare più il suo piano. Si abbassò nell'acqua fino a sfiorarla con le labbra, ricordò il primo ragazzo che aveva baciato, il suo trasporto. Era uno studente straniero, arrivato a Olimpia per ragioni di studio, e che era stato abbastanza coraggioso da non curarsi della sua bellezza. Non sapeva come funzionavano le cose in Grecia, o, forse, il desiderio di averlo aveva avuto la meglio. «Sei più bello di Afrodite», gli aveva detto dopo il bacio, e a Psiche si era gelato il sangue nelle vene. Senza saperlo lo studente lo aveva condannato per sempre all'odio e al risentimento della dea. Paragonare un umano ad Afrodite... come aveva potuto?

L'acqua che adesso gli bagnava le labbra era fredda quanto lo sguardo che aveva rivolto allo studente, scacciandolo via. Aveva sedici anni allora, e da quel momento la sua bellezza non aveva fatto altro che fiorire inarrestabile, suscitando le invidie, i timori e le occhiatacce degli altri.

Intanto gli sprazzi di cielo che si scorgevano tra le alte chiome degli alberi si erano accesi di rosso, riversando scintille di rubino anche sull'acqua, il canto degli uccelli si era fatto più assordante mentre essi volavano accerchiandosi in uno spazio sempre più ristretto. Psiche rimase immobile, ormai abituatosi alla temperatura dell'acqua. Trovava conforto nell'essere immerso nel liquido mobile, al riparo da occhi indiscreti e commenti maligni. Una nuova melodia gli venne in mente e gli fece compagnia mentre l'aria rossastra perdeva rapida la sua luce e imbruniva, non dopo essersi fatta per un breve istante violetta.

Un fruscio di foglie riscosse Psiche. Tese le orecchie e tentò di individuare il punto da cui era scaturito il rumore, ma riuscì a udire soltanto il suo cuore fattosi di nuovo tamburo martellante nel petto. Avanzò cauto nell'acqua. Un altro fruscio. È solo un animale, tentò di tranquillizzarsi, ma il buio che incombeva sul bosco non lo faceva stare tranquillo.

Poteva essere chiunque, persino un dio che esigesse la sua compagnia, o la dea della bellezza che veniva a rivendicare il suo primato. Psiche si sorprese a pensare che avrebbe ceduto la sua avvenenza in cambio di una vita tranquilla. Una lampo rischiarò un arbusto. Tra i fiori di croco violacei apparvero due gemme smeraldo. Fu un solo attimo. Psiche non riuscì più a ritrovare lo sguardo che gli era parso di vedere. Tornò il silenzio. L'aria si fece immota, presto sarebbe stata riempita dagli ululati degli uccelli notturni.

Psiche corse fuori dall'acqua e si infilò i vestiti con i quali era arrivato. Odoravano ancora di fieno e di mucche, ma si erano asciugati alla bene e meglio. Non gli importò. La sensazione di essere osservato gli fece venir voglia di lasciare il bosco. Neanche il suo angolo segreto era più sicuro in quel momento. Mentre riprendeva la strada di casa gli si strinse il cuore. Era come se una parte di sé sapesse che non sarebbe più tornato lì, che tutto stava per cambiare.

Amore & Psiche (gay story)Where stories live. Discover now