Capitolo 5: Haven

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Haven

6 Novembre 2017

Avevo bisogno di evadere da casa.
Quelle quattro mura mi facevano mancare l'aria.

Camminare per le strade della città mi fa bene. Mi aiuta a liberare la testa dai pensieri e a rinconciliare i sensi.

Forse è pace interiore quella di cui ho assolutamente bisogno.

Affrontare ogni giorno i miei genitori, le loro stupide battute, il trattarmi come se fossi invisibile, soltanto perché non accettano le mie scelte di vita...

Non è facile come sembra. Non lo è mai stato. Neanche con mio fratello, ma lui almeno ha preso un aereo ed è andato lontano da qui.
Ed io dove potrei mai andare? Dove potrei fuggire?

C'è un posto che mi accetterebbe per quella che sono?

Con questa domanda in testa, mi fermo nel bel mezzo del marciapiede, facendo inveire un ciclista frettoloso, che ha dovuto frenare all'improvviso. A nulla sono servite le mie scuse, se n'è andato mandandomi a quel paese, con un gesto poco elegante.

L'ho palesemente ingornato e mi  avvio nella parte opposta a quella che stavo percorrendo.

Effettivamente c'è un posto che mi piace frequentare, dove c'è gente che non guarda dall'alto in basso, che non giudica per quello che sei.

Ed è il posto che mio fratello frequentava assiduamente, quando era qui a Detroit.
Il posto dove ha conosciuto l'amore della sua vita.

Intravedo l'insegna a neon già prima di arrivarci.
È ben visibile in questo vicoletto buio.

L'aria di novembre è gelida, per cui mi stringo nel mio giubbino nero prima di entrare al Devil.

L'odore che mi accoglie è pungente ed intenso; erba, whisky, ed anche un misto di profumi da quattro soldi mischiati tra loro.

Mi guardo intorno, nella penombra di questo locale, illuminato soltanto da qualche scritta a neon posta sulle pareti nere.

Ci sono sempre le solite persone; Adam con i suoi ottanta chili, il berretto al contrario e quei baffi neri.
Margaret, la cameriera, vestita di pizzo per cercare di raccimolare qualche extra, oltre allo stipendio da fame che riceve qui dentro; si avvia lenta e strascicata tra i tavoli, consegnado da bere ai clienti abitudinari. Nonostante l'età avanzata, sembra non volersi arrendere. Questo lavoro o le piace o è tutto quello che le rimane nella vita.
John, il barista calvo, dall'arrabbiatura facile.

Sono sempre loro, nello stesso posto, da una vita. Con i loro problemi con la legge, con la loro vita dannata.

Adam si accorge di me e solleva la mano per salutarmi; ricambio con un gesto del capo e mi avvio verso il bancone, sedendomi su uno sgabello libero.

John mi guarda, si apre in un sorriso pigro e mentre pulisce un bicchere mi domanda: « Il solito, Andrews? »

Annuisco, ricambiando il sorriso.

Si mette subito all'opera, prepandomi rum e cola, quello che solo lui sa fare, il più buono che abbia mai assaggiato in vita mia.

Forse potrei passare la serata qui, come faceva mio fratello quando non sopportava i nostri genitori.
Magari mi ubriacherò e dormirò su una panchina.
A lui capitava spesso. E quanto si arrabbiava mamma? Era sempre sul punto di chiamare la polizia, fino a quando non ci avvisavano di averlo trovato ranicchiato su una panchina del parco.

Come mi divertivo nel vedere l'espressione di mio padre.

« Qual buon vento ti porta qui, signorina? » mi domanda John, porgendomi il bicchiere.

Violet Where stories live. Discover now