Capitolo 11

5.7K 200 2
                                    

Alexander

L'acqua è sempre stata un toccasana per i miei nervi.
Ricordo che dopo le litigate con mio padre, quelle che finivano a pugni e calci, prendevo la macchina e raggiungevo la prima spiaggia disponibile. Non contava quanto lontano fosse.

Ed è esattamente quello che ho fatto anche questa volta. Ho preso la macchina e ho guidato di notte verso la Jones Beach State Park.
Il problema è che la mia mente non ripercorre le parole taglienti di mio padre, o il nostro prenderci a pugni finché uno dei due non molla. Purtroppo, l'unico pensiero è il sorriso dolce di Isabella. Quando si è messa a ridere, tra le mie braccia, per una mia battuta, il cuore ha fatto una capriola. Quel cuore che neanche sapevo di avere.

Mi metto seduto e granelli di sabbia umida si attacco ai pantaloni. Ma non importa.
La temperatura, nonostante sia piena estate, è scesa drasticamente. Ma non importa.
Il vento inizia ad alzarsi, ricoprendomi di sabbia. Neanche questo importa.
L'unica cosa che conta è che io sono Alexander Moore, figlio di Peter Moore, erede del suo patrimonio, capo della mafia Moore che per generazioni ha comandato sul territorio.
È un mantra che mi tocca ripetere più volte di quanto creda. Mi prenderei a schiaffi da solo, se potessi. Cedimenti non sono contemplati nella mia persona, nel mio ruolo. Non posso sbagliare e non perché sono un fottutissimo egoista. Sulle spalle ho il peso dei miei fratelli. La mia famiglia. Devo riscattare anche il loro onore.

Capisco di aver passato tutta la notte su questa spiaggia a rimuginare, quando i primi colori dell'alba iniziano a comparire.
Decido di tornare a casa, e ahimè, al sicuro interrogatorio da parte dei miei fratelli. Hanno cercato di chiamarmi più volte al telefono, dopo che mi sono disfatto dell'auricolare.
Solo dopo la decima chiamata, hanno capito che volevo rimanere solo. Ma so per certo che una volta entrato in casa, dovrò dare loro delle spiegazioni sul mio comportamento.

Arrivo nel nostro attico che è già mattina. Faccio per aprire la porta, ma noto che è socchiusa. La sposto un po' per vedere chi c'è dietro. Enea si erge nel suo metro e novanta, e la rabbia e la preoccupazione fanno da sfondo ai suoi occhi.

"Non farmi la paternale".

Inizio col mettere le mani avanti, non ho nessuna intenzione di prendere parole da qualcuno in questo momento.

"Mi dispiace, ma te la prenderai. Ti rendi conto di quanto cazzo ci hai fatto preoccupare?"

Tancredi ed Eros entrano in cucina, probabilmente avranno sentito le urla del fratello.

"È tornato il figliol prodigo".

"Stai zitto Eros".

"Alexander, va bene che sei il capo e che ogni decisione deve uscire dalla tua bocca, però mettiti anche nei nostri panni. Ti abbiamo visto uscire di corsa e prendere la macchina con una faccia sconvolta. Abbiamo creduto il peggio".

Tancredi è sempre stato quello più calmo di tutti. Mai una parola fuori posto. Mai una parola in più del dovuto e sempre con una estrema calma.

"Ve ne parlerò. Ma non è questo il momento", dico infine.

"Odio doverti mettere pressa, ma credo sia utile dirci le cose come stanno ora".

Enea mi guarda negli occhi, visibilmente preoccupato. Capisco che qualcosa non va.

"Che succede?".

Nessuno risponde.

"Ragazzi, quando vi faccio una domanda, pretendo una risposta. Cosa cazzo è successo mentre ero via?"

A prendere parola è Tancredi.

"Isabella Rodriguez ti ha convocato".

"Cosa?" non riesco a capire. 

Convocato? Eh?

"Ieri sera ha intercettato Enea, e gli ha ordinato di dirti che ti aspetta nel primo pomeriggio a casa sua. Passerà a prenderti una macchina".

"Mi state prendendo per il culo".

"Magari fosse così".

Isabella mi ha convocato. A casa sua. Nella fossa dei leoni.
Ed io che credevo che gli unici leoni, fossimo noi.

D'Amore e D'Odio Where stories live. Discover now