Quaranta

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Io ho fallito.

Non so quanto tempo sia passato da quando sono entrata qui dentro.
Da quando mi hanno portata qui.
Forse è passato un giorno, forse un mese o forse un anno. Non lo so.
Non so più nulla.
Sono uno spaventoso insieme di ignoranza.

Non so dove mi trovo.
Sono seduta a terra. Il pavimento è duro, anche la parete su cui sono appoggiata lo è.
Fa freddo, l'aria puzza di umidità. A volte sento delle voci, altre delle urla.
Ogni tanto mi portano da mangiare. Lo hanno fatto per quarantadue volte, credo, le ho contate. Se lo fanno una volta al giorno, è quasi un mese e mezzo che mi trovo qui. Ma se lo fanno per due volte a giornata, allora sarebbero solamente ventuno giorni.
Sono legata, ho delle catene che mi stringono gambe e braccia.
Sono debole: il mio corpo lo è, ma soprattutto la mia mente. Ho capito che stavano avvelenando il cibo. Ogni volta delle quarantadue in cui ho mangiato da quando mi trovo qui, il mio cervello sembrava indebolirsi sempre di più.

Ora sento dei passi, si avvicinano e aprono la cella. Sento il suono della serratura che scatta, la porta che si apre e la persona che entra. Non ho mai visto chi sia. Mi lasciano sempre il mangiare distante, mai abbastanza vicino da non rendermi obbligatorio allungarmi per prenderlo.
Ma oggi non mangerò. Ho bisogno che la mia mente sia lucida.
Di solito mi fiondo sul cibo che mi portano.
Oggi no.

Chiunque sia che mi ha portato da mangiare, si è accorto di ciò. Spinge ancora un po' verso di me il piatto di metallo in cui è contenuto il cibo, come si fa coi cani che non vogliono nutrirsi.

«Mangia» intima.
È la prima volta che sento la sua voce e la riconosco.
Alzo la testa per fronteggiarlo.

«No» non ho la forza di aggiungere altro.
La persona che è davanti a me sospira, scocciata, si inginocchia davanti a me e mi toglie la benda che mi copre gli occhi.

Vladimirovich.

Quei suoi occhi color ghiaccio, i baffi biondi sempre perfettamente curati, la testa coperta da un berretto. I vestiti eleganti, uno smoking nero con dei mocassini che hanno rimbombato sul pavimento alla sua entrata. Lo sguardo gelido, fisso su di me. Riesco a sostenerlo a fatica.
Mi afferra il collo, mi toglie il fiato.

«Vedi di mangiare, stupida ragazzina» ringhia.
«No» ripeto, più convinta di prima.

Il luogo in cui mi trovo è buio, l'unica luce arriva dalla porta spalancata da cui è appena entrato Vladimirovich. Tutto è fatto di mattoni neri, non lucidi e trattati come quelli del ministero: questi sono rozzi e sporchi, pieni di muffa. Questa è la prima volta che vedo il luogo in cui sono e spero che la mia mente sia abbastanza lucida per ricordamelo.
Provo a guardarmi intorno per cercare con gli occhi altre uscite, ma i miei movimenti sono limitati dalla mano di Vladimirovich, salda sul mio collo.

«Mangia» insiste.
«No». Non stacco gli occhi dai suoi.

Con violenza afferra il pane che mi ha portato, mi apre la bocca con forza e lo infila con due dita spingendolo in fondo alla mia gola, facendomi quasi soffocare.
Mi dimeno dalla sua presa e riesco a liberarmi, sputando ciò che ho in bocca.

«Mangiatela tu questa merda!» sbraito.
In tutta risposta ricevo uno schiaffo. Il bruciore è forte, ma non permetto alle lacrime di scendere.
«Taci» mi punta il dito al viso «stupida ragazzina» si alza in piedi, ma non se ne va. Cammina avanti e indietro massaggiandosi la barba con una mano, l'altra ferma sul suo fianco.
Lo osservo, ora che sono libera dalla sua forza mi guardo intorno: nessuna via d'uscita oltre alla porta da cui è entrato.
Si avvicina a me minacciosamente. Sussulto, ma lui non mi sfiora. Mi slega. Mi fa mettere in piedi. Mi trascina fuori dalla cella a forza. L'edificio in cui mi trovo, che posso per la prima volta vedere, sembra un casolare abbandonato. Il tetto sta quasi totalmente crollando, la pioggia entra dentro bagnando tutto e tutti. Lo spazio è vuoto e vastissimo.

Twisted Hearts || Mattheo Riddle ||Where stories live. Discover now