20. Richter

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Metà novembre

❝ Signora Baldwin, mi vuole parlare di sé? ❞

Non sapeva esattamente per quale motivo, ma il dottor Richter le infondeva molto più agio rispetto alla dottoressa Butler, che Margot aveva sempre visto come fredda e scostante, quasi arcigna, una persona della quale faticava a fidarsi. Eppure pareva essere un bravo medico nel settore della fertilità, e lei quel bambino lo voleva veramente, questa l'unica ragione per cui aveva continuato a restare in cura da lei. Il dottor Richter invece aveva un'aria calma e pacata, seppur austera e pur sempre distante, ma pareva esser distante in una maniera diversa rispetto a quella della Butler: non per menefreghismo, ma per professionalità. Margot non amava aprirsi con gli estranei, eppure il suo psichiatra pareva quasi infonderle un senso di sicurezza e fiducia, sebbene quella fosse solamente la loro prima seduta.

« Mi chiamo Margot Duvall. In Baldwin. In Baldwin-Somerset. Ho ventotto anni. Insegno alla Columbia. »

Rispose alla sua domanda con quelle piccole pillole di sé, seduta composta sul divanetto, piegata in avanti, i gomiti poggiati sulle ginocchia e le mani congiunte tra loro.

❝ E come mai è qui? ❞

Domandò allora il dottor Richter senza mutar la sua statuaria posizione sul rispettivo divano, scrutando attentamente la giovane come a volerle leggere l'anima e appuntando qualche parola di tanto in tanto sul proprio blocchetto, persino quando Margot si limitava a tradire dei gesti o delle movenze, senza neppure aprire bocca.

« Come fa? »

Chiese allora lei, scrutandolo a sua volta e lasciando il medico perplesso.

❝ Prego? ❞

Domandò lui di rimando, preso un po' alla sprovvista.

« Come fa a trovare qualcosa da scrivere su di me persino se non dico niente? Persino se mi limito a muovere un muscolo? »

Richter sorrise, quasi compiaciuto da quella vena curiosa classica di chi voleva indagare, conoscere, sapere.

❝ Anche i silenzi parlano, signora, bisogna solo imparare ad ascoltarli e a capire quello che dicono. Il silenzio di ognuno di noi si esprime in una lingua diversa. ❞

Le rispose, per poi tornare a scrivere sul suo blocchetto, tradendo un'aria vagamente divertita.

« Cosa dicono i miei silenzi? »

Chiese allora a sua volta Margot, sporgendosi nel tentativo di leggere cosa Richter stesse scrivendo di lei. Il medico alzò lo sguardo e stavolta la guardò meglio, facendo scivolare i propri occhiali da vista con una mano in maniera che le lenti potessero liberargli le iridi.

❝ Dovrebbe rispondere alle domande signora, non porle... quello è il mio lavoro. ❞

Non aveva tradito la medesima aria arcigna della dottoressa Butler, ma anzi, era riuscito a formulare quella frase con un tono estremamente accomodante. Margot lo guardò di rimando, iniziando a torturarsi le mani, e Richter scrisse ancora.

❝ Le dà fastidio non sapere quello che scrivo di lei, vero? ❞

« Sì, molto. »

Nemmeno ci pensò a rispondere, lo fece di getto. Richter, ridacchiando, annotò anche questo.

❝ Si vede che è una docente... è abituata a porle lei le domande, è lei che scrive valutazioni riservate su terze parti, ma se lo fanno su di lei non va più bene. Che studentessa era a scuola? ❞

Margot in quel frangente non poteva conoscere il contenuto degli appunti di Richter, né il ragionamento dietro quella domanda: è lei che deve agire da docente, se qualcun altro assume questo ruolo con lei si innervosisce; forse perché potrebbe riportarla con la mente a quando era una studentessa, è così che si sente? E se sì, perché non le fa piacere questa associazione? Non ha bei ricordi da studentessa?
No, Margot ignorava che gli appunti dicessero questo, ignorava che dietro quella domanda vi fosse questo ragionamento.

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