13 Diciassette passi verso l'inferno✔️

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La Russia non era come i giornalini turistici o le foto scattate al palazzo d'inverno mostravano. Quando Gilbert raccontava di San Pietroburgo la descriveva sempre come una città colorata, ricca di cultura e luci. Le persone, si vantava, amavano andare in giro e chiacchierare. Ciò che vedevo io era solamente una terra desolata, ricoperta da un leggero velo di neve attecchita ad ogni lampione, colonna, muro o vetro. L'aria era densa di gelo e di una fitta nebbiolina che mi rendeva difficile capire dove fossi realmente. Alcune sagome di sfuggita furono l'unica testimonianza che non fossi finita all'inferno per espiare le mie colpe, ma anche quello non era da escludersi.

Il cielo era un manto oscuro, in Australia non avevo mai visto qualcosa di simile e subito ne fui intimorita. I colori che rendevano la mia terra un luogo bellissimo, fatto di profumi esotici, danze e colori marittimi, qui non li avrei mai più ritrovati. Appartenevano ad un modo a cui non avrei mai fatto più ritorno, o almeno non tanto presto.

I finestrini erano scuri, non seppi se fosse perché erano oscurati o perché fuori c'era troppo buio. Da dove mi trovavo io, in mezzo ai gemelli, riuscivo a scorgere l'esterno solo con la coda dell'occhio e distinguere i contorni degli edifici. La prima impressione della Russia che ebbi fu questa: fredda, tetra, inospitale e, in modo scontato, troppo diversa da me, da quello che io ero e portavo dentro.

Avevo lasciato in Australia ogni cosa. Non avevo niente, nessun oggetto, foto o ricordo che mi avesse accompagnato in quella folle fuga che, magari, avrebbe alleggerito il mio cuore. Mi domandai di continuo se la polizia avesse fatto la macabra scoperta dei segreti dei Petronovik. Alcuni in quei vecchi quadri avrebbero visto solo un uomo ricco e triste, ma io sapevo la verità. Ciò che più mi importava era che qualcuno avesse trovato mia madre, non mi interessava in quali stati o dove. Avrei trovato il modo, viva o morta, di tornare in Australia.

Giurai che sarei morta lì, dove ero nata.

Pensai: Qualcuno sarà sulle mie tracce o non hanno nemmeno un indizio su dove sono?

Tentai di tranquillizzarmi, di mostrarmi dignitosa, ma non mi riuscii bene per niente: le spalle mi tremavano, le gambe sembravano di gelatina ed erano ricoperte di brividi, battevo i denti per il freddo e non volevo pensare al livido che dovevo avere sulla faccia.

Non sapevo dove fossimo o dove eravamo diretti. Nel vano tentativo di capire almeno in che città o via ci trovavamo mi sporsi un poco per tentare di leggere dei cartelli. La velocità con cui viaggiavamo non era alta per via della neve, ma ogni cartello era scritto con simboli e lettere che non avevo mai visto. Avevo dimenticato che il russo aveva un alfabeto proprio e totalmente diverso da quello inglese. I fasci di luce dei lampioni mi sfrecciavano davanti agli occhi, mescolandosi per via delle lacrime lì convogliate.

Tirai su il naso e singhiozzai rumorosamente, tremando vistosamente per il freddo che penetrava dalle fessure dei finestrini e che mi sferzava la pelle nuda.

Gilbert si sporse dal suo posto per toccarmi la gamba. Io mi ritrassi, spaventata e furiosa, raggomitolandomi nel grosso giubbotto che mi dava una mera protezione.

«Non preoccuparti, bambina mia, il russo non è poi così difficile come dicono. Come hai imparato a parlare in inglese puoi farlo anche con il russo. Se ti impegni lo imparerai a breve.»

«E se così non fosse?» risposi secca.

«Peggio per te, allora.» Mi sorrise di sbieco, dedicandosi ad un bicchiere di vino rosso preso da un cassetto segreto a lato del sedile. «Dominik e Michael sanno due lingue. Loro non sono dei geni e, anche se devo ammetterlo, nemmeno tu hai dato dei risultati diversi. Conto sulla tua pratica voglia di vivere.»

«Morirò prima di dare ascolto alle tue regole.»

«Non sarai più un problema mio» emancipò, alzando le spalle.

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