40 Se la vita ti offre limoni, tu di' mandarino✔️

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Per arrivare da San Pietroburgo a Mosca ci vollero quasi otto ore di treno veloce. Partimmo verso le sette di mattina e grazie alla gentile offerta del papà di Ilona non dovetti nemmeno svegliare Gilbert per chiedergli di accompagnarmi in stazione. Arrivammo a destinazione quasi a mezzogiorno e tra il sonno e la noia quasi mancò che sbagliassimo fermata; per fortuna Mosca era il capolinea.

Seppure Michael quel giorno si trovasse ancora nella Capitale non ci trovammo o incrociammo: la RKA e il loro albergo erano opposti a dove Ilona aveva prenotato il nostro soggiorno poco contenuto e perciò, ingoiando il rospo e non insistendo, lasciai che la rabbia e la voglia di vedere Michael sbollissero nel mio cervello e ci dirigemmo all'hotel con il primo taxi che ci fece salire.

Nel pomeriggio Michael ancora non rispose al telefono, quindi, fatto un sostanzioso pranzo a base di pesce e formaggi, io e Ilona facemmo una passeggiata per la capitale. Un anno prima non mi sarei mai sognata di visitare una città simile, distante e oltreoceano senza mia madre accanto, e il fatto di essere sola con Ilona mi diede un ampio senso di libertà e responsabilità. Avevo imparato a tirarmi fuori dai guai da sola, invece che aspettare l'aiuto di un adulto.

Nel primo pomeriggio visitammo Cremlino, la cittadella fortificata costruita sulla riva sinistra della Moscova, sulla collina Borovickij. Ilona l'aveva visitata tutte le volte in cui era andata a Mosca, con la scuola o la sua famiglia, ma molto volentieri mi fece da guida e imparai importanti informazioni sulla Russia e sulla patria dei gemelli.

Era un posto incantevole, pieno di vita. Lungo le vie, numerose bancarelle dell'usato sfoggiavano le loro cianfrusaglie per i turisti, c'erano mimi che inseguivano persone con finti tricicli e venditori ambulanti di rose rosse.

Passeggiammo per gli ampi Giardini di Alessandro con in mano una coppa di gelato alle meringhe (mi venne fame per via della parola "Cremlino" perché mi ricordò vagamente un gusto di gelato, viceversa, per antonomasia, non era altro che kreml', e significava fortezza) e ammirai le cupole delle Cattedrali con i loro colori dorati, splendenti quanto mille anelli. Tutto era un'esplosione di colori e con il calare del sole, le mura e le torri parvero perdere sangue da tutto il loro perimetro. La Troitskaja, come un prepotente titano, superava le altre vette con superbia.

All'ora di cena ci rifugiammo per scampare ad un improvviso acquazzone estivo, in un wine bar, dove Ilona si scolò quattro birre scure con mio totale stupore. Ed era ancora sobria. Beata ragazza.

Il nostro hotel si chiamava Imperator e faceva parte di una catena americana. Avevamo preso una camera doppia, con un piccolo bagno dotato di tutti i comfort e un mini frigo ricolmo di dolcetti della zona e bibite fresche, compresi alcuni alcolici in bottiglia. La stanza era piccola, o forse mi parve tale perché avevamo aperto le nostre valigie a terra e tutta la roba, spazzole, vestiti e scarpe, era sparpagliata qua e là come se fosse un campo minato. I letti, sfatti, erano l'unica parte della camera dove fosse possibile campeggiare senza correre pericoli.

Ilona era in bagno, io mi ero piazzata davanti alla tv a schermo piatto sopra il tavolinetto e stavo guardando un buffo programma d'intrattenimento. Avevo tra le mani un bicchiere di Coca Cola con ghiaccio e il programma-tour per quei giorni a Mosca.

Mi rivoltai sul letto e urlai: «Ilona, posso fare una chiamata dal tuo cellulare?» per far sì che mi sentisse con la porta del bagno chiusa a chiave e la musica della radio accesa.

«Devi chiamare Michael?» mi domandò, usando il mio stesso tono.

«Sì, posso?»

«Va bene» acconsentì. «Staccalo dalla presa, è a ricaricare. Ragazza, devi sul serio comprarti un cellulare, siamo nel ventunesimo secolo!»

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