17 Sangue e ferro✔️

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Quando tornai in me, la testa mi pulsava e avvertii il mio corpo come compresso da una pesante gravità. In un attimo provai un dolore lancinante in mezzo agli occhi, come se un piccolo ago mi avesse trapassato il cervello e mi stesse lacerando tutte le ossa craniche. Strizzai gli occhi e mugugnai qualcosa di indefinito.

Aprii e chiusi la bocca più volte, passai la lingua sulle gengive e percepii l'odore salato e malsano del sangue. Della saliva mi scivolò fuori dalla bocca, stranamente colorata di rosso, e finì su un tessuto di pelle nero.

Provai a sollevare la testa, ma qualcosa me la spinse nuovamente in basso. Mi parve di percepire il cervello restringersi per poi schiacciarsi in tutta l'area del cranio. Sperai che fosse solamente la mia impressione, tuttavia l'ago divenne più grosso e doloroso.

Ero stesa e contorta sul sedile posteriore di quell'auto metallizzata e la dinamica corrotta dei fatti mi sfuggii. L'ultima cosa che ricordavo era Vìktor, il suo viso pallido e sorridente, la piazzetta e i lampioni brinati.

Poi dei fari.

«Ostanovit'sya.»

Voltai piano la testa di lato e incontrai un paio di occhi scuri che mi squadravano dall'alto. Era un uomo interamente vestito di nero, all'inizio mi parve che avesse una maschera o un passamontagna, ma era solo perché la sua pelle era scura come la notte. I bulbi bianchi erano come fosforescenti in quella poca luce.

Aprii la bocca, ma non ne uscì nessun grido impaurito o rabbioso. Rimasi in silenzio, mossi le spalle e le braccia. Mi avevano legato le mani dietro la schiena e i muscoli cominciavano a indolenzirsi. Piagnucolai spaventata e lottai per muovermi.

«Tem ne meneye!» tuonò l'uomo e io nascosi la testa, impaurita.

La realtà mi piovve addosso come un taglio netto di machete: mi stavano riportando dai Petronovik. Ricordai immediatamente la conversazione con Vìktor, il suo fratellino, i soldati e la macchina piombata dal nulla. Aprii gli occhi e il respiro mi si mozzò in gola. Il sangue di Vìktor fu la prima cosa che mi ricordai. Il solo pensiero mi fece salire il vomito, ma forse fu solo perché la macchina saltava e traballava ad ogni buca.

«Asp... Ehi...» biascicai con la faccia premuta contro il sedile e la bocca impastata.

L'uomo si girò e tirò la bocca, disgustato.

«Dove mi state portando? Che avete fatto a Vìktor? Liberatemi, vi prego» dissi trascinando malamente le parole. Dominik più volte di nascosto mi insegnò a non mostrarmi intimorita verso nessuno, sempre a testa alta anche nelle situazioni avverse, tuttavia il mio corpo tremava di freddo e paura. L'uomo non parlò. «Mi capisci? Capisci quel che dico?»

Il guidatore della macchina parlò e dopo tutti gli altri scoppiarono a ridere.

«Fottuti bastardi!» ringhiai, muovendo i polsi e graffiandomi senza risultati.

Gli uomini risero di più, dovendo trovare divertente le mie scenate inutili. Trattenni le lacrime, alzai i piedi e cominciai a scalciare. L'uomo accanto a me aprì la bocca con sconcerto e si tirò a lato, provando ad evitare i miei calci con un'espressione di profondo nervosismo. Il guidatore e l'altro seduto davanti invece sghignazzarono.

«Glupaya devochka!» urlò e mi immobilizzò le caviglie.

Io urlai forte, disperata. Non sapevo il russo, ma una delle poche parole che conoscevo era proprio quella. Mi aveva definita stupida. Più volte Dominik e Michael mi avevano chiamata così.

L'uomo in nero, stufo dei miei strilli, mi schiacciò la testa nuovamente nella pelle fredda e umida del sedile. La sua mano mi ricopriva la faccia e, per timore che mi colpisse, rimasi zitta e tremai in silenzio.

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