Capitolo 1

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Recupero le mie cose dall'armadietto del locale e lancio un'occhiata ai miei amici. Nessuno di loro è disponibile per accompagnarmi, quindi mi tocca tornare da sola. Max è ubriaco, suppongo che ci penserà Lucas a riaccompagnarlo a casa e invece Emily è venuta con la sua migliore amica.

Li saluto con un cenno della testa ed esco fuori. Faccio qualche respiro profondo. L'aria è gelida.

Controllo se ho l'ombrello in borsa. Comincerà a piovere da un momento all'altro.

«Maledizione!».

La musica si fa sempre più lontana.

Non c'è quasi nessuno in strada, eccetto qualche barbone occupato a scavare nell'immondizia.

Un antifurto comincia a suonare, facendomi prendere un colpo.

New York è una città caotica, non è mai vuota. Persino di notte ci sono tantissime persone in giro. Figuriamoci di giorno. È inutile quanto la gente si sforzi di arrivare in orario a lavoro, se già di prima mattina il traffico è insostenibile. La metropolitana è sempre affollata, soprattutto di mattina presto. Forse è l'unica che funziona ventiquattro ore al giorno. I condotti e le scale che scendono in sub way puzzano di piscio. Mi danno il voltastomaco. Nonostante questi particolari, alla fine questa è una bella città. È facile innamorarsene.

«Dove vai così di fretta?». Un ragazzo mi si piazza davanti, insieme a lui ne compaiono altri due.

Deglutisco.

«Prendete tutto quello che volete, non mi servono i soldi. Ho anche una collana in argento», dico, con la voce che trema.

«Non ci interessano i soldi, ma grazie per l'offerta», risponde sarcastico.

«Sul serio, non ho bisogno di questi soldi. Non urlerò, né farò nulla che possa seccarvi», aggiungo, provando a convincerli.

«Se proprio ci tieni», dice uno di loro, schioccando le dita. Gli altri due fanno uno scatto in avanti, come fossero sincronizzati. Si avvicinano minacciosamente a me. Non posso fare altro che indietreggiare fino ad arrivare con le spalle al muro. Nemmeno mi ero accorta di essere finita in un vicolo cieco.

Quello più basso mi strappa la borsa di mano. Comincia a scavare al suo interno, buttando fuori gli oggetti che trova e lanciandoli a terra con non-calanche. Prende tutto ciò che è di valore, tranne il cellulare che, come tutte le cose che non gli interessano, finisce per essere lanciato a caso da qualche parte alle sue spalle. Non ho nemmeno il tempo di realizzare cosa sta succedendo, che l'altro mi arriva alle spalle e mi dà un calcio dietro le gambe, facendomi piegare in due. Mi ritrovo così in ginocchio, con i palmi delle mani appoggiati a terra.

Provo ad alzarmi, ma senza ottenere grandi risultati, perché mi stringe forte la spalla, causandomi dolore. I miei occhi diventano lucidi.

Urlo, sperando che qualcuno venga a salvarmi. Grido con tutto il fiato che ho in corpo, almeno fin quando mi tappa la bocca.

«Fai la brava», sussurra.

Quello più alto di tutti si avvicina, si abbassa sulle ginocchia e mi avvolge un braccio intorno alla vita. Gli appoggio le mani sul petto e lo spingo bruscamente. Si avvicina nuovamente, afferrandomi per i capelli. Sento il suo fiato caldo sul collo.

«Ti conviene non scherzare con me», dice, mentre un suo amico si avvicina e mi punta la pistola alla testa. Deglutisco. «Hai capito?», quasi urla. Annuisco. Il ragazzo che mi sta puntando la pistola alla tempia si allontana sotto ordine dell'amico.

Quest'ultimo mi appoggia l'altra mano sul sedere e la fa risalire pian piano lungo la mia schiena. Arriva alla cerniera del vestito e la abbassa lentamente, mentre mi stringe ancora più forte con l'altro braccio.

Sempre con movimenti lenti mi abbassa il vestito fino a farlo cadere fino ai fianchi. Avvicina il viso e preme le sue labbra sulle mie, facendomi venire la nausea. Poi non capisco più che cosa succede, il mio cervello si disconnette, cercando disperatamente di salvarmi, di non farmi assistere a questa scena.

Quando riprendo a vedere e sentire, loro se ne sono andati. La prima cosa che vedo quando apro gli occhi è il sangue. Il mio. Scuoto la testa e provo a convincermi del fatto che questo sia soltanto un brutto sogno. Devo semplicemente trovare il modo di svegliarmi.

Mi sforzo di raggiungere il cellulare, abbastanza lontano da me. Lo schermo è rotto, ma funziona ancora. Guardo l'ora: sono le tre del mattino. Mia madre mi starà cercando.

Sblocco il cellulare e compongo il suo numero di telefono sulla tastiera. Risponde al terzo squillo. Resto a fissare il muro bianco di fronte a me, illuminato dalla luce dei lampioni. Mia madre continua a chiamare il mio nome, ma non riesco più a parlare. È come se non avessi più la voce.

Ho ancora freddo. Mi guardo intorno. Il cellulare mi cade dalle mani, rompendosi definitivamente. Mi porto le ginocchia al petto e ci appoggio sopra la testa. La schiena contro il muro e gli occhi chiusi. Non sento più nulla. Forse il cellulare si è spento e non si riaccenderà mai più, perché si è rotto, proprio come me.

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