xv. Ti appartengo - parte due

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L'uomo premeva il costoso plantare contro la gola del ragazzo, steso e inerme sul pavimento.

«Che cosa ti avevo detto di fare, ingrato? Prima lo studio, poi tutto il resto.»

Suo figlio rischiava di soffocare. Annaspava e supplicava con le unghie la caviglia scoperta dell'assalitore. Non riusciva a rispondere, il suo viso angelico di preadolescente era ridotto a una maschera di lividi e paura.

«Tres, il linsen degli amministratori è qua fuori, pronto per partire» annunciò una donna sciatta, atona, appoggiata pigramente allo stipite dell'arco intarsiato.

«M-m-mamma... aiuto» biascicò il ragazzino, con gli occhi scomposti e scoppiati dal terrore, ma in cambio ricevette solo un'occhiata gelida di lei. La signora Idra girò i tacchi e si diresse verso qualcosa di più interessante a cui prestare attenzione.

Lacrime amare sgorgavano lungo gli zigomi cianotici di Ivon.

«Mi... mi dispia-»

«Taci» premette più forte rischiando di sfondargli la tenera gola. Poi di colpo ritrasse il piede, permettendo all'altro di tossire e riprendere a respirare. Qualche capillare si era rotto, negli occhi di Ivon, le sclere rosse erano due polle di disperazione. I bulbi oculari contornati da nebulose viola e gialle.

«Non frequenterai più nessuno al di fuori di questa casa. Tu dovresti essermi grato per ogni passo, ogni boccone, ogni vestito che ti pago. Mi sembrava di averti detto: tre cartelle di testo e poi dieci minuti d'aria, non hai obbedito. Hai preferito uscire a bivaccare con quel fallito del figlio dei vicini. Adesso sai quello che ti aspetta.»

Il ragazzino si contorceva ai suoi piedi come una biscia. Nessuno si chiedeva quanto quel corpo gracile potesse continuare a incassare pugni, calci, capelli strappati e labbra spaccate. Ivon urlava, si dimenava, soffocava in una ganascia di dolore che inclinava le costole e insanguinava la pelle.

«Padre, ti prego!»

Un altro calcio allo stomaco lo fece smettere di supplicare. «Alzati, infame.»

Le braccia e le gambe del figlio erano steli tremanti. La mente e il corpo una prigione fetida, con sbarre artigliate da due detenuti: Dolore e Rabbia. Battevano e scuotevano i cardini, gridavano, ma non potevano uscire.

Tres si slacciò la cinta, si curò di sistemare la fibbia in acciaio affinché colpisse di punta.

La prima sferzata strappò a Ivon un lembo di pelle dalla faccia. Per quel tipo di ferite, Tres avrebbe dovuto pagare delle sedute di rigenerazione cutanea e così, per pura avarizia, evitò di far saltare i bulbi oculari dal volto di suo figlio.

«Fa' tuo il dolore, Ivon...»

«...von»

«Ivon!»

Due occhi blu si spalancarono, accompagnati dal respiro di chi era appena scampato a un principio di annegamento.

«Cazzo... che colpo, mi hai fatto prendere» fu il commento sincero della ragazza accanto a lui. Era Sahara, e lei conosceva bene quel tipo di risveglio. Non immaginava, però, che gli incubi di Ivon fossero stati un tempo la sua stessa quotidianità.

«Prof?» un viso meno familiare e più lentigginoso entrò nel ristretto campo visivo di Ivon, ancora tinto di puntini neri e bianchi. «Bella botta di morfina, eh?»

Sindrome di LazzaroWhere stories live. Discover now