xx. Algoritmo

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In verità, l'arca era completa da tempo. I coloni dovevano solo sistemare le ultime, superficiali questioni d'ingegneria e aspettare che il genetista del TæT ultimasse la sua opera d'impacchettamento embrioni. Il tutto era praticamente prossimo alla partenza.

In quelle ore avveniva l'inaugurazione dell'arca: un'enorme astronave con un corpo centrale triangolare e due orbite inossidabili intorno, nelle quali erano impilati i moduli abitativi per i civili, le capsule di rifornimenti e altri apparati locomotori.

Era l'unica occasione per i sapiens di poter tornare su Terra, e invece non tutti sarebbero partiti, non c'era spazio per colpa di vincoli finanziari e strutturali. Dalla Sala Testa era arrivato il lasciapassare solo per bambini ed educatori d'infanzia; l'arca sarebbe stata popolata dai giovani del TæT e dal personale pedagogico. Era un sacrificio enorme, così come il dolore delle famiglie costrette a lasciar andare i figli verso l'ignoto – ma era più grande il senso di repulsione che provavano all'idea di far crescere i bambini su una colonia in decadenza. L'emergenza umanitaria su TæT era, di fatto, insanabile.

Erano tutti riuniti nella seconda rientranza spazio-portuale di TæT, nella facciata opposta rispetto a quella dove i clandestini di Folgar avevano attraccato. Uomini, donne e bambini assistevano accalcati e osannanti. In prima fila, più vicino ai grossi legamenti d'acciaio che tenevano ancorata l'arca, c'erano SET, lo scienziato e l'infermiere scelti dal Senza Volto.

Arlo se ne stava a bocca aperta e asciutta. Fissava l'imponente astronave chiedendosi come un popolo di straccioni avesse potuto erigere una tale eleganza ingegneristica. L'arca sostava ben salda ai suoi cardini, di fronte alla gigantesca valvola chiusa, il portale che si sarebbe aperto il giorno della partenza.

«Il nome dell'arca sarà assegnato dal genetista». SET girò il volto verso Ivon, solenne. «Come vorresti battezzarla?»

Da quando gli ho permesso di darmi del tu? Pensò ironicamente il professore. Ne era onorato, ma in quel momento sentiva la testa piena di aria fritta. «Non sono bravo a dare nomi, preferisco farli scegliere» e pensò a Mŏdis che, non potendo mostrarsi in pubblico, si era di nuovo travestito da donna sciita.

Prima che la gente intorno potesse assumere un'espressione delusa, il giovane botanico del TæT si fece strada sgusciando e avvicinò a Ivon.

«Professore...» Zeno gli bisbigliò qualcosa, con occhi che si facevano lucidi. Dopo aver ascoltato il suo alunno, Ivon assunse uno sguardo di umana pietà, ed era raro vedere il genetista vestirsi di una tale compassione.

«L'arca porta la vita, quindi è femmina». Ivon sorrise guardando verso l'alto. Non avrebbe mai pensato che la sua storia potesse portarlo fin lì, e oltre. «Il suo nome sarà "Savanna".»





Beatriss si stiracchiò tra le lenzuola, spazzando coi lunghi capelli biondi il petto dell'uomo, nudo e sdraiato accanto a lei.

«Come ti senti... Oi, Arlo, tutto bene?»

L'infermiere aveva le lacrime agli occhi, era commosso dalla sua stessa gioia. «Mai stato meglio» le rivelò, dal profondo del cuore. «Vieni qua...»

Acchiappò il busto snello di Beatriss e se lo tirò addosso, affondò la testa nella chioma della donna solo per nasconderle il fatto che sì, aveva ancora gli occhi lucidi. Arlo era così contento che faticava a crederci: dopo anni di stenti morali, materiali e sessuali, era riuscito a conquistare una come lei. Arlo aveva idealizzato enormemente la figura di Beatriss, dal suo parto in poi. La vedeva come una dea della fertilità, la sentiva più che speciale, preziosa.

Sindrome di LazzaroDove le storie prendono vita. Scoprilo ora