Capitolo 17

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Il resto della mattina così come i tre giorni consecutivi passarono rapidamente, con i professori che passarono la maggior parte del loro tempo a fissarmi con tutto l'amore che provavano nei miei confronti, a cui rispondevo con sincere occhiatacce.
Quando finalmente arrivò la fine delle lezioni e della settimana mi sentì non poco meglio.

Uscì dall'edificio cercando di scansare, senza decappottarmi, gli altri ragazzi cercando di allontanarmi dall'edificio prima che mi raggiungesse.

Intravidi l'auto di mia madre e tirai un sospiro di sollievo. Forse l'avevo scampata.

Quell'accenno però di vittoria durò meno di un picosecondo, e si frantumò in una miriade di coriandolini, quando la voce della persona che speravo di evitare raggiunse le mie orecchie.

«Luca-chan» mi salutò tranquillamente Akira mentre mi raggiunse con poche falcate. Non mi sembrava che avesse perso ore di sonno a capire che cos'era successo tra noi qualche giorno prima, così com'era successo al sottoscritto. Beato lui che non si faceva troppi castelli mentali!

E sempre per via di questi pensieri avevo  cercato di evitarlo il più possibile cercando però di non dare l'idea ambigua di odiarlo, cosa senz'altro non vera. A odiarmi ero io che non riuscivo a mettere in ordine i miei pensieri indisciplinati.

«Sei libero oggi pomeriggio?» mi domandò.

Da quando ero tornato a scuola gli incontri con il fisioterapista erano stati spostati al pomeriggio ma solo due volte a settimana e il venerdì non era uno di questi, e questo lui lo sapeva per cui la sua era una domanda retorica. Che cazzo avrei avuto da fare?

Ma per educazione risposi semplicemente negando con la testa.

Lui sfoderò un sorriso. «Perfetto. Vieni ti porto in un bel posticino».

Perché a quelle parole il primo pensiero malpensante fu un letto?

Ecco perché non volevo rimanere da solo con lui. Ero certo che non appena avrei aperto bocca sarei sprofondato nell'imbarazzo.

«C'è mia madre che mi sta aspettando» snocciolai la prima scusa che mi venne in mente, che tanto scusa non era.

Akira non si fece scoraggiare e con la calma che lo contraddistingueva si avvicinò all'auto dove mia madre aspettava con la pazienza di una santa. Li vidi scambiarsi qualche parola, che mia madre accompagnava sempre con un leggero sorriso. La conversazione non durò a lungo e infine Akira si allontanò dall'auto con fare soddisfatto mentre mia madre mi salutò, con aria fin troppo allegra per i miei gusti, prima di ingranare la marcia e allontanarsi.

Maledetta traditrice!

Akira mi raggiunse e si posizionò dietro di me e cominciò a spingermi, una concessione unicamente per lui dato che odiavo sentirmi imponente, verso un'auto blu scura.

«È tua?» domandai incuriosito.

«Per la verità é di mia zia, ma a volte la uso anch'io».

Non sapevo che Akira avesse la patente anche se avrei dovuto aspettarmelo.

Mi fece fermare appena lontano e dopo aver sbloccato le portiere mi aprì quella della postazione accanto al guidatore e mi avvicinai. Dentro era perfettamente pulita e dai sedili grigio scuro che parevano molto comodi.

Mi issai sul sedile e si, in effetti era proprio come me li ero aspettati. L'interno era tenuto con una cura quasi maniacale, da mettermi un tantino a disagio. Era tutto troppo perfetto e ordinato, in netto contrasto con l'entropia a cui cui tendeva normalmente l'universo.

Akira chiuse con gesti puliti e determinati la sedia a rotelle che andò ad adagiare nel bagagliaio.

«Allacciata la cintura?» mi domandò non appena anche lui prese posto come guidatore.

È Tutta Una Questione di ChimicaWhere stories live. Discover now