3- Comandi, generale Dameron

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Jen

Mi sveglio nel cuore della notte con un senso d'oppressione che mi schiaccia il petto. Mi divincolo dalla tua stretta calda avvertendo il freddo di questa buia camera d'albergo pizzicare prepotentemente le spalle, le braccia e la schiena, private del tuo calore. Rabbrividisco. E non so se sia davvero il gelo il responsabile. Un incubo nel quale annegavo mi ha destata, sottraendomi il respiro che il ritorno in stato di veglia mi restituisce affannoso.

Un incubo, Jen, tranquilla – mi dico – è solo un brutto sogno.

Da tempo i miei sonni sono tranquilli.

Da quanto tempo?

Una domanda che non è saggio porsi.

La mente mi gioca un brutto tiro. Conosco già la risposta. Come uno spettro antico svelle i cardini cigolanti di argini fatti di carta.

Un nuovo brivido lungo la spina dorsale mi convince definitivamente a rinfilarmi sotto le coperte, mi rannicchio vicinissima a te nel tepore che il tuo corpo rilascia sulle lenzuola. Ti guardo. Sei il mio tutto e questo mi spaventa. Da morire. I tratti del viso rilassati e la bocca dischiusa in un'espressione tenera e infantile dipingono ai miei occhi un angelo dai capelli colore del cioccolato. Scomposti, sul mio cuscino, disegnano cirri profumati di legni speziati tra i quali ho posto il mio nido a rifugio degli occhi severi del mondo.

Lo sapevo, ti ho svegliato. Le palpebre ancora socchiuse, mi cingi di dolcezza cercando le mie labbra in una muta richiesta. Resisto al tuo assalto e ti fermo.

"Jen," la voce arrochita dal sonno recita sottovoce il mio nome a guisa di una preghiera.

"Calma gli ardori del risveglio, aviatore."

È allora che la scura cortina di seta delle tue ciglia assonnate svela le stelle che brillano più del tenue pallore argenteo della luna che, dalla finestra, disegna il profilo della tua pelle.

Mi guardi spaesato nel mentre che traggo al petto la coperta: argine invalicabile a divisorio dei nostri corpi.

– Devo imparare a esistere senza di te, Poe. È necessario.

Le dita della tua mano s'allungano, delicate, fino al mio viso. Mi cerchi e mi allontano ancora. Mi chiami e non rispondo.

"Jen."

Un'eco lontana rimbalza sul frastuono dei miei pensieri.

Mi traggo a sedere, facendo leva su entrambe le braccia. Non possiedo più il privilegio di poterlo fare impiegando un solo arto, così che l'altro fissi al petto il piumone. Nuda e scoperta, questo sono davanti a te che mi guardi. Non che sia una novità; le tue mani conoscono la mappa delle mie imperfezioni.

"Che c'è, Jen? Un brutto sogno di nuovo?" il biascischio impastato delle tue parole urta le mie orecchie al pari dello stridere del gesso monco sull'ardesia dei miei nervi. Riporto le coperte addosso in un gesto di stizza; nuova barriera che tento inutilmente di erigere a resistenza delle attenzioni che non mi fai mai mancare.

"Jen, puoi parlare con me, lo sai. Non mi allontanare."

In un ennesimo tentativo di rassicurarmi l'argine si infrange.

"Sei soffocante, Poe. Lasciami respirare."

Te lo ricaccio contro con l'impeto di una fiumana di emozioni scomposte.

Il tuo cuore che si spezza passa per lo sguardo vacuo e incolpevole che mi fissa da sotto le sopracciglia aggrottate. Incolpevole sì. Reo di una premura che alle volte ti sfugge di mano senza che te ne renda conto.

Antologia: opposti innamoratiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora