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Ultimo giorno di scuola, roba da non crederci. Avevo passato i miei ultimi cinque anni là dentro, di cui tre di pura sofferenza. Luigi, Carlo, Serena, Aurora. Ero riuscito ad arrivare al traguardo sano e salvo, più o meno. Diedi uno sguardo al passato, ripensando a quando, due anni prima, avevo avuto l'idea di cambiare scuola pur di non avere più niente a che fare con Luigi.

Per fortuna che era arrivato il Covid, perché altrimenti, forse, l'avrei fatto per davvero.

Per fortuna che Carola, all'inizio di quell'anno scolastico, mi aveva assegnato il banco a tre con Sofia e Aurora, scaraventando Luigi lontano da me, in ultima fila.

Per fortuna che il fato riuscì sempre a nascondere alle orecchie del mio nemico le mie intenzioni di andare all'estero.

Mai più sofferenza, mai più competizione, mai più Luigi. Quasi non ci credevo, era un sogno.

Mai più Loredana, mai più latino, mai più italiano, mai più prof scadenti. Mi sarebbe mancata solo la Zavvi, l'unica che era stata in grado di trasmettere la sua passione per la sua materia. Sarei stato finalmente libero: nuove cose da scoprire, nuovi amici, magari la mia prima ragazza! Non sapevo se avrei provato un po' di nostalgia, non mi rendevo conto. In ogni caso, avrei dovuto assaporare quelle ultime cinque ore nel miglior modo possibile, perché sarebbero state le ultime della mia vita al liceo. Malgrado la festa della scuola cominciasse alle 9, io, caricando su Ludovico, partii molto presto: arrivai infatti alle 7:45. Pensavo che non ci sarebbe stato nessuno oltre a noi, ma mi sbagliavo: Luigi e altri nostri compagni erano già al piazzale dell'edificio 1. Feci due più due: loro erano gli addetti al concerto. Comprensibile, visto che uno di loro aveva una chitarra a tracolla, mentre il tizio vicino un ukulele. Ma Luigi, che c'entrava? Parlando del più o del meno, venni a sapere che, nei giorni precedenti, aveva assistito alle prove del gruppo, non per esibirsi anche lui, ma giusto per conversare un po' di sana musica con dei veri esperti del settore. Era la prima volta che aveva fatto qualcosa senza di me, senza avvisarmi. Certo, era libero di comportarsi come gli pareva, ma, uno o due anni prima, mi avrebbe sicuramente avvertito con un "Hey, io vado a vedere la band che prova, tu vieni?". Qualcosa stava cambiando tra di noi. Un'inevitabile crepa stava prendendo piede, espandendosi sempre di più. Si stava allontanando da me. In passato, eravamo alquanto inseparabili: tutte le attività che facevo io, le faceva anche lui. Stesso discorso per amici frequentati e feste. Era la prima volta che, decidendo di testa sua, era andato da qualche parte, senza di me. Mi faceva un certo effetto, a dir la verità, perché ero convinto di avere una sorta di potere su di lui. Vi ricordate tutte le volte che gli ho dato un passaggio a casa? Senza la mia macchina, non andava da nessuna parte, tanto per fare un esempio del mio potere. Tuttavia, evidentemente aveva trovato un'alternativa. Ero un po' geloso e anche imbronciato: mi stava dimostrando davanti agli occhi che avrebbe vissuto alla grande anche senza di me. Credevo che sarei stato io a scaricarlo per primo. Già me lo immaginavo, disperato, a causa del mio silenzio, per via degli zero messaggi che gli avrei inviato durante l'estate. Non pensate che avrei fatto il cattivo, dicendogli in faccia che non avrei più voluto vederlo! Mi sarei allontanato in modo naturale, tutto qui. In fondo, il nostro rapporto era diventato altamente tossico. Tenerlo vivo sarebbe stato solo un danno, sia per me sia per lui, e io mi ero incaricato di porre fine a quello scempio. Ma mi aveva anticipato di qualche settimana. Era da svariati giorni, ormai, che frequentava quella gente, quelli della band. Mi dissero pure che si era innamorato della bassista del gruppo. E a me non aveva detto niente. Beh, in fondo neanche Luigi sapeva nulla di Gaia. Però, io mica ero invadente quanto lui, andiamo! Principalmente, mi disturbava il fatto che si fosse confidato con qualcun altro. Stavo ormai svanendo dalla sua vita. Ma era quello che avevo sempre desiderato, in fondo. Vi ricordate di quando mi lamentavo del fatto che mi fosse sempre addosso, che non mi lasciasse mai in pace un secondo? Ecco, che avevo da rammaricarmi, allora? Forse mi rendevo conto per la prima volta di star perdendo il mio unico vero amico? Sì. O forse no. Io lo odiavo, mi aveva rovinato la vita, eppure gli volevo bene. Ma sarebbe stato impossibile continuare quell'amicizia, dopo tutte le cose che erano successe, dopo tutte le cattiverie che ci eravamo scambiati, da entrambe le parti. Era la scelta migliore per ambedue. Però, ecco, io mi sentii tutto a un tratto molto solo, e mi ci sentii ancora di più quando arrivarono tutti i miei compagni di classe, paradossalmente, perché mi accorsi di non avere nessuno con cui stare. Sofia era andata a parlare con altra gente, così come Aurora e Ludovico, Carlo era andato a fumare (come sempre d'altronde), Luigi si era amalgamato con quelli della band. Ero da solo. Cioè, non fisicamente: il mio corpo era posizionato vicino a quelli di altri miei compagni di classe. Però, non c'era nessuno con cui interagissi per davvero. Chiacchieravano tra di loro, mentre io tentavo invano di intromettermi nella conversazione. A un certo punto, ebbi pure paura che mi chiedessero dove fossero i miei amici o come mai avessi una faccia così triste. Fortunatamente per me, non molto più tardi lo spettacolo cominciò: i professori ci chiamarono a raccolta e ci costrinsero a prendere posto. Mi sedetti vicino a due miei compagni di classe, facendo finta di concentrarmi sulla musica. Stavano proprio per scattarsi una foto, quando uno dei due, accorgendosi forse della mia solitudine, mi invitò a unirsi a loro. Clic. Che umiliazione, pure gli altri avevano notato il mio immenso disagio. Ma in quel momento, a dir la verità, il disturbo che più mi assillava non era di natura psicologica, bensì fisica. Quelle casse mi stavano spaccando i timpani! Ognuno era immobile al proprio posto, non avevo molta voglia di fare lo strambo ed essere l'unico in mezzo alla folla a cambiare sedia. Poi, nessuno mi sembrava dolorante o con le mani tappate sulle orecchie.

<<Perché solo io ho questo problema?>> mi chiedevo, allibito.

I miei genitori dicevano sempre che esageravo, che ero un mollaccione, che avevo una soglia del dolore bassissima e robe del genere. E un osservatore esterno sarebbe stato perfettamente d'accordo con loro, visto che ero letteralmente l'unico che sembrava stesse morendo per via delle onde sonore. Ma se a me dava fastidio, che potevo farci? Non stavo mica gonfiando il problema! Provai a tenere duro, seppur consapevole che la resistenza non sarebbe durata molto.

<<Devo scappare per evitare un danno irreparabile al mio cervello!>> tuonò a un certo punto la mia mente.

Così, sfinito, mi alzai e cambiai posto, mettendomi più distante dalle casse, fregandomene della platea intera. Purtroppo per me, mi accorsi che non era cambiato nulla: il suono era ancora dannatamente alto. Ripetei lo stesso procedimento: inutile resistenza e poi cambio di sedia. Per ben tre volte. Alla fine, arrabbiato come una iena per aver messo in serio pericolo la mia intelligenza, mi alzai definitivamente e mi diressi verso le scale sul retro dell'edificio 1. Salii indemoniato fino al terzo piano e mi rinchiusi in bagno. Per fortuna, non c'era nessuno in tutta la struttura, visto che erano tutti fuori a festeggiare. Io, d'altro canto, ero disperato. Per via del forte rumore, mi faceva un po' male la testa. Risultato: danno irreparabile al cervello, perdita istantanea di intelligenza. Ero angosciato, distrutto, a pezzi. Almeno nel bagno non avrei subito ulteriori danneggiamenti. Chiamai mia madre, allarmato, e lei mi rispose come sempre, dicendomi che ero solo uno stupido e che non mi era successo niente. Rassegnato ormai al mio destino, passai un'oretta nel bagno a guardare video di tennis su Youtube, maledicendomi per non essermi mobilitato prima. Infatti, perché non mi ero alzato subito, appena avvertito il fastidio? Perché avevo aspettato mezz'ora prima di prendere quell'inevitabile decisione? Il motivo lo sapevo bene. Incolpai i miei genitori, che fin troppo spesso mi dicevano che ero io il problema, quello che ingigantiva tutto e si creava infinite difficoltà dal nulla. Erano convinti che io ero quello strano e dunque, ogni volta che mi capitava una situazione del genere, mi sentivo in dovere di resistere, fidandomi delle loro parole. E invece no, si sbagliavano dannatamente! Se solo mi avessero creduto fin dall'inizio, sapete quanti momenti di depressione mi sarei risparmiato? Anziché tentare di resistere invano, sarei scappato subito il più lontano possibile dalla fonte del disturbo (che quel giorno erano le casse). Scusatemi tanto, ma se mi facevano male le orecchie, che diavolo potevo farci? Che colpa avevo? Se solo un medico avesse diagnosticato ufficialmente i miei malanni, sarei stato libero di comportarmi come mi pareva. Ad esempio, la luce intensa (soprattutto il passaggio buio-luce) e i rumori forti mi davano fastidio da anni, eppure i miei genitori e miei amici mi facevano sempre storie quando mi vedevano tapparmi le orecchie oppure mi mettevo una mano davanti agli occhi. Se avessi potuto esibire loro una sorta di certificato medico che attestasse il mio problema in modo categorico, non si sarebbero lamentati più: sarebbe stato come prendersela con un celiaco per il fatto che non mangia il pane. Io purtroppo, in quello sketch, ero un celiaco non dichiarato. Quel famoso ultimo giorno di scuola, mi sarebbe proprio servito un documento attestante la mia delicatezza acustica, cosicché non mi sarei fatto nessun problema a lasciare il mio posto e scappare via per mettermi al riparo da quel frastuono.

<<Il sottoscritto Maurizio Veggense è autorizzato a comportarsi come un pazzo in caso di rumori forti, luce intensa o qualsiasi cosa gli passi per la mente. Gentilmente, il dottore.>>

Ironia della sorte, soltanto anni dopo mi avrebbero diagnosticato il disturbo ossessivo compulsivo. Ma all'epoca ero visto solo come uno squilibrato.

Solo nella mia testaWhere stories live. Discover now