Capitolo trentasei.

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Molto spesso ho creduto che la mia fosse solo misantropia, dovuta a tutta la brutalità a cui dovetti assistere quando ero ancora una bambina; altre volte invece credetti di essere io il reale problema della mia diversità, affibiandomi le colpe di tutta la cattiveria e l'ingiustizia ricevute, come se in qualche modo le meritassi.
Crescendo ho capito che il problema non ero io, non erano gli altri: il problema deriva dal fatto che l'uomo nasce per essere solo, per dipingere se stesso a propria immagine, e che il resto del mondo è solo d'intralcio. Si stringono rapporti solo per potersi liberare dei propri sentimenti ma, tra tutte queste espressioni, chi è l'ascoltatore?
In quel momento avrei semplicemente voluto che qualcuno ascoltasse quello che sentivo, i miei dubbi, le mie preoccupazioni, i miei sentimenti, eppure ero lí a capacitarmi del fatto che gli unici con cui potessi realmente confidarmi fossero i miei rapitori; constatato ciò, riflettei a lungo sull'accaduto, convincendo me stessa che io non rappresentavo quell'episodio, non ero le emozioni provate in quel frangente, non ero la rappresentazione della rabbia, della cattiveria, dell'assoluta insensibilità: io ero semplicemente io, diversa da quella di sempre.

Era notte inoltrata quando decisi di raggiungere la cucina ad affondare i denti in qualcos'altro che non fosse aria, dato che l'ora di cena era passata da un pezzo senza che mi presentassi.
Indossai la vestaglia di seta blu e m'incamminai giù per la scalinata, sperando che in frigo ci fosse qualche rimasuglio, in grado di mettere a tacere i fastidiosi gorgoglii del mio stomaco affamato; in caso contrario avrei preparato io stessa qualcosa.
Come pensavo, la cena era stata spazzolata via e, oltre ad un tost ai cetriolini, latte e uova non vi era nulla. Data la presenza di così pochi ingredienti, decisi di preparare dei pancake, in modo tale da ammazzare anche un po' il tempo. Il sonno non si sarebbe presentato poi cosí presto ed io necessitavo di distrarre la mia mente, incentrando i miei pensieri su qualcos'altro.
Passai un'ora a preparare l'impasto che risultò essere prima troppo grumoso, poi troppo liquido e così via in un circolo vizioso, man mano che dosavo gli ingredienti. Era disgustoso. Stufa di quella poltiglia informe, aggiunsi dell'ulteriore farina, sperando che si rapprendesse almeno un po', continuando a mescolare senza sosta.
-Setacciala.- La voce di Dimithryus giunse nitida alle mie orecchie, spaventandomi, e lasciando che uno sbuffo di farina si sollevasse in aria facendomi tossicchiare. Dispersi la nuvoletta sventolando la mano e quando feci per girarmi, sbattei contro il suo solido petto.
Mi mantenne, riposizionandomi di fronte a se, aspettando una risposta da parte mia che però non arrivò, troppo occupata com'ero a calcolare quanto minima fosse la distanza tra noi. Mi sforzai di trattenere un respiro quando si sporse verso di me, solleticandomi il viso con i suoi capelli di quel nero cupo, e rimasi sconsideratamente impietrita nel constatare che avrei voluto fosse maggiormente vicino. Continuò ad osservarmi, sporgendosi oltre la mia figura per afferrare qualcosa facendo si che, il suo naso, sfiorasse lievemente la mia guancia arrossata per via della situazione.
-Credo dovresti setacciarla.- Le sue labbra si mossero discrete ed il suo tono lento era accuratamente calcolato.
-Cosa?- Domandai, prestando nuovamente attenzione alla circostanza.
-La farina, credo sia meglio setacciarla.- Affermò, sventolandomi il piccolo setaccio metallico sotto il naso, per poi allontanarsi. Arrossii maggiormente, in preda ad un forte imbarazzo e mi voltai riprendendo il mio lavoro.
Lasciò che sbrigassi la preparazione, sedendosi su uno dei ripiani in acciaio, in attesa, senza spiccicare parola. Sentii il suo sguardo bruciarmi la schiena, cosa che mi trattenne bene dal voltarmi.
Il risultato di tutto il mio impegno fu a dir poco disastroso, ma ero troppo orgogliosa per ammetterlo, quindi lo tenni per me, nonostante fosse un po' complicato nascondere l'evidenza di quel pasticcio.
-Sono orribili!- Esclamò Dimithyus, dopo essersi appropriato di uno degli ultimi pancake preparati.
-Non erano per te in ogni caso.- Mi indignai ma, nella mia testa, ritrattai tutto non appena ebbi tirato il primo morso. Nauseanti: il sapore della farina era intenso, mescolandosi a quello tenue del latte, mentre dello zucchero non vi era alcuna traccia. Mandai giù quella poltiglia appiccicosa con non poca fatica, per evitare di sputacchiarla ovunque, osservando l'espressione compiaciuta di Dimithryus.
-Allora ammetti fossero disgustosi?- Domandò sorridendo di sbieco e permettendo ad un sopracciglio di sollevarsi.
-Potrei vomitare.- Arricciai il naso disgustata, suscitando l'ilarità del mio interlocutore. Lo osservai pensierosa, domandandomi fino a che punto avrei potuto spingermi qualche ora prima. Avrei davvero tolto la vita a qualcuno, andando contro i miei stessi principi?
-Mi dispiace per quello che è successo.- Dissi di punto in bianco, interrompendo la sua risata ed il flusso dei miei pensieri; fui del tutto sincera nel pronunciare quelle parole, nonostante il fatto che, quella sensazione di pieno potere nelle mie mani, avesse scaturito in me il desiderio di volerne di più.
-Ero certo che il tuo ego mi avrebbe steso.- Saltò giù dal ripiano, raggiungendomi. -Non pensarci.- Afferrò tra due dita, in maniera docile, il bordo superiore della vestaglia che avevo indosso, domandandomi, con gli occhi, il permesso per qualsiasi cosa stesse per fare. Attese pazientemente il mio consenso, che conferii con un cenno del capo: non sentimmo la necessità di proferire alcuna parola, l'intesa era palpabile in quel momento e fu come se un muto e sottile filo di pensieri fluisse tra noi. Scostò lentamente via il tessuto, carezzando lievemente la mia pelle e prendendosi tutto il tempo necessario per godere di quel gesto. Il mio corpo reagì in maniera del tutto spontanea, producendo brividi che si irradiarono lungo tutto il mio essere; con il pollice carezzò il marchio sulla mia spalla e, preso da quel gesto, mi intrappolò tra il suo corpo ed il ripiano della cucina. Ero all'estremo dell'imbarazzo ma, nonostante quella sgradevole sensazione, tutto mi sembrò perfettamente giusto. Sollevò lo sguardo e, con una mossa decisa, mise in bella mostra un segno precisamente identico al mio, inciso sulla sua pelle, nel medesimo punto.
Lo guardai interrogativa, consapevole che qualcosa legava le nostre ferite.
-Sono uguali.- Dissi solamente, studiando minuziosamente il suo marchio.
-Lo so.- Affermò, -Credo che tu debba sapere questo.- Iniziò dapprima a passare l'indice sul suo taglio in maniera docile, quasi impercettibile, per poi premere cosí forte da volercelo quasi affondare; la cosa orribile fu che tutto ciò che lui fece a se stesso, potei chiaramente sentirlo su di me, il suo dolore era il mio, le sue carezze mi appartenevano, ed i suoi dubbi ora erano condivisi.
-Sento ogni cosa!- Esclamai tra l'incredulità ed il raccapriccio. -È una cosa a senso unico o è reciproca?- Massaggiai la parte ora dolente, sperando che ne potesse beneficiare anche lui: quel dolore era insopportabile.
-Temo sia reciproca, quindi smetti di toccarla.- Il suo rimprovero non uscì duro quanto in realtà avrebbe voluto essere. -Dopo ciò che è accaduto oggi, sentivo la necessità di dare qualche risposta ad almeno uno dei tuoi interrogativi; credo tu ormai ne sia satura.- Come poteva davvero credere di avermi dato una risposta? Non mi era stato d'aiuto, al contrario, non aveva fatto altro che incrementare la già lunga lista di domande che avrei voluto porre.
Se Sebastian fosse stato al suo posto, probabilmente mi avrebbe tormentata a vita, considerando quel marchio un pulsante da premere ogni qualvolta ignorassi le sue chiamate; lui però non era il mio amico, lui era Dimithryus Stan e questo poneva la situazione sotto una luce diversa: era qualcosa che ci avrebbe collegato intimamente, probabilmente, per sempre.


Azazel - Lucifer's SonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora