01 | Labbra da canotto

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Qual'è il problema principale dei teenager? Semplice, essere accettati dagli altri. Come fare? Uniformarsi alla massa.

Ecco perché si vedono mandrie bovine di ragazzi e ragazze tutti uguali tra loro, intenti a girare per i corridoi delle scuole, per i marciapiedi delle strade e ovunque, senza sapere davvero cosa stanno cercando o cosa accidenti stanno facendo. Delle conchiglie vuote, senza una vera e propria anima. Anche io un tempo ero così, ero anche io uguale agli altri. Stessi vestiti, stesse scarpe, stessi comportamenti. Una ragazza normale come tante altre, con amici normali, con una famiglia normale, con una vita normale, che si accontentava di una soddisfazione ogni tanto. Tutto ciò che facevo, era filtrato per essere accettato dagli altri, i quali avrebbero poi inconsciamente determinato ogni mio comportamento, ogni mia scelta. Ero schiava del pensiero altrui, ma la cosa più brutta di tutta questa faccenda era che a me andava bene essere così. Non mi sforzavo neanche di apparire diversa, perché se lo avessi fatto sarei stata additata come la ragazza strana, solo perché avevo il coraggio di essere me stessa.

Poi, la realtà mi è piombata addosso violentemente e senza possibilità di condizionale. Tutto quello che avevo, fino a quel momento, solo lontanamente immaginato, si era realizzato in modo improvviso e tremendamente doloroso. I miei genitori sono morti e io non ho potuto fare assolutamente niente per impedirlo. La loro vita, e forse anche la mia, mi è scivolata dalla mani, senza preavviso, nello stesso modo in cui l'acqua scivola via dallo scola pasta. Veloce e impossibile da fermare. Il senso di impotenza che deriva da una morte è un qualcosa che lascia un segno profondo e non rimarginabile nella vita di una persona, senza considerare il legame affettivo che può esserci. Un vuoto incolmabile. Questo segno è rimasto anche a me, cambiandomi profondamente e totalmente.

Da quel momento in poi la mia vita si è ribaltata drasticamente, del resto io sono cambiata drasticamente. Nel giro di due giorni ero in una città diversa, in una casa nuova, con delle persone nuove che fingevano di essere i miei genitori, che fingevano di volermi bene, facendo la famigliola felice, cosa che non eravamo per niente. Io mi ero chiusa in me stessa e avevo smesso di badare a ciò che gli altri pensavano di me. A chi importava più? Non avevo più nessuno per cui valesse davvero la pena essere qualcosa in più di ciò che ero. Non mi sforzavo più di essere una persona migliore. E così avevo fatto per i seguenti due anni, durante i quali altre famiglie, altre città, altre case e altre scuole si erano susseguite tra loro. C'ero solo io con i miei gusti da pazza, il mio carattere orribilmente difficile e i miei problemi da adolescente, che puntualmente però nessun adulto era in grado di capire. Nessuno si sforzava di capirmi e io non mi sforzavo di piacere agli altri. Semplice ed efficacie. C'ero solo io con i miei demoni e basta.

Anche quella mattina, mentre camminavo per le strade affollate di New York, stavo palesemente ignorando tutto e tutti. Non volevo vedere, non volevo sentire, ma soprattutto non volevo essere vista. La vita è troppo breve per curarsi di ciò che la gente pensa di noi. Tutto troppo breve e io lo avevo provato sulla mia pelle. Anche quando arrivai a scuola, volevo che tutto continuasse come poco prima. Continuavo a camminare incurante di tutto e tutti, occhiali da sole sul viso, anche se non si vedeva un raggio di sole da mesi, cuffiette nelle orecchie e cappellino nero di lana in testa. Il mio umore era nero, come ogni giorno del resto. Passavo camminando svogliata al centro dei corridoi della Olympia High School, senza vedere realmente nessuno, ma ormai sapevo anche perfettamente che le persone avrebbero notato me. Come mai? Semplice, per il mio look total black e quando dico total è perché ero veramente vestita tutto di nero: dall'intimo alle calze, dai vestiti alle cuffie e all'Iphone. E forse anche per i miei lunghissimi capelli rosso ramato. Erano la mia unica gioia, dopo i miei occhi verdi, tendenti al color nocciola per essere precisa. Non ero famosa, non ero nessuno e allo stesso modo non permettevo a nessuno di mettermi i piedi in testa e dirmi cosa dovevo fare, a nessuno. Avevo tirato fuori quella parte di me, che non avevo mai conosciuto quando i miei genitori erano ancora vivi. Non sapevo di essere così. Ero diventata un mostro per il mondo. Per me ero semplicemente io e questo mi bastava, ma evidentemente per le altre persone, quelle che seguivano costantemente la massa, non era così. Avevano bisogno di un giocattolo con cui divertirsi per un po', fino a quando non ne avrebbero trovato uno più divertente e bello da distruggere a sua volta. Peccato che Xeni McAdams non viene mai distrutta. Mai.

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