Sto bene e mi sono ripreso bene, ma Jace no

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«Sei ancora arrabbiato?»mi chiese Jace.

Io, appoggiato alla parete dell'ascensore, lancio uno sguardo truce a Jace attraverso lo spazio angusto. «Non sono arrabbiato.»

«Oh, sì che lo sei, invece.» Jace fece un gesto accusatorio contro di me e gridò, il braccio percorso da una fitta. Ogni parte del suo corpo era dolorante, dopo la botta che aveva preso quel pomeriggio per un volo di tre piani concluso sfondando del legno marcio e atterrando su un mucchio di ferraglia. Gli facevano male perfino le falangi delle dita contuse.

Io, che solo di recente avevo abbandonato le stampelle che avevo dovuto usare dopo uno scontro con Abbadon, non ero messo meglio. Avevo gli abiti infangati e i capelli che mi ricadevano in ciocche unte, lisce e intrise di sudore. Un lungo taglio mi deturpava una guancia. 

«Non è vero» disse attraverso i denti. «Solo perché avevi detto che i demoni draghi erano estinti...»

«Io avevo detto perlopiù estinti.»gli punto un dito contro.«Perlopiù estinti» ripetei con voce tremante di rabbia «significa NON ABBASTANZA ESTINTI.»

«Capisco» disse Jace. «Vuol dire che farò cambiare la voce nel manuale di demonologia da "quasi estinti" a "non abbastanza estinti per Alec perché lui i mostri li preferisce davvero estinti". Questo ti farà felice?»

«Ragazzi, ragazzi» disse Isabelle, che era stata occupata a esaminarsi il viso nella parete a specchio dell'ascensore. «Non litigate.» Distolse lo sguardo dallo specchio con un sorriso allegro. «D'accordo, c'è stata un po' più azione di quanto ci aspettassimo, ma io l'ho trovata uno sballo.»

La guardo e scossi la testa. «Ma come fai a non sporcarti mai di fango?»

Scrollò le spalle con filosofia. «Ho il cuore puro. Respinge la sporcizia.»

Jace sbuffò talmente forte che Isabelle lo guardò irritata. Jace le agitò contro le dita incrostate di fango. Al posto delle unghie aveva delle mezzelune nere. «Sporco dentro e fuori.»

Isabelle stava per replicare, quando l'ascensore si fermò con uno stridio di freni. «Sarebbe ora di riparare questo affare» disse aprendo con violenza la porta.

Jace la seguì nell'ingresso, impaziente di togliersi armi e armatura e di farsi una doccia calda. Ci aveva convinto ad accompagnarlo a caccia, sebbene nessuno dei due fosse del tutto a proprio agio a uscire in quel modo, dato che ora che non c'era più Hodge a dare istruzioni. Ma Jace aveva cercato l'oblio attraverso il combattimento, lo spietato diversivo dell'uccidere e la distrazione del ferire. E noi altri due, avendolo capito, avevamo accolto la proposta e ci erano trascinati con lui nei tunnel sporchi e deserti della metropolitana, finché avevano trovato il demone drago e lo avevano ammazzato. Avevamo agito tutti insieme, in perfetta armonia, come sempre. Come una famiglia.

Jace abbassò la cerniera e si tolse la giacca, lanciandola su uno dei ganci fissati al muro.

Io, che gli sedevo accanto sulla panca di legno, mi liberò scalciando degli stivali incrostati di melma. Canticchiavo sottovoce, stonando, per far capire a Jace che non ero poi così seccato. 

Isabelle si sfilava le forcine e lasciava ricadere i suoi lunghi capelli neri. «Ho una fame!» disse. «Vorrei che la mamma fosse qui per cucinarci qualcosa.»

«Meglio di no» osservò Jace sfibbiandosi la cintura delle armi. «Starebbe già strepitando per il fango sui tappeti.»

«Proprio così» disse una voce gelida, e Jace, le mani ancora sulla cintura, si girò di scatto. Maryse Lightwood era in piedi sulla soglia, a braccia conserte. Indossava un rigido vestito da viaggio nero, e aveva i capelli, neri come quelli di Isabelle, raccolti in una spessa treccia che le penzolava a metà della schiena. I suoi occhi, di un azzurro glaciale, scivolarono sui tre come un riflettore antiaereo...

città di cenere secondo Alexander Gideon LightwoodWhere stories live. Discover now