Guerra e una speranza

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«Sei vivo» dissi... Due brevi parole, che però nascondevano un sentimento profondo. Il sollievo sul viso era evidente, come la stanchezza.

Nonostante l'aria gelida, il sudore mi incollava i capelli neri alle guance e alla fronte. Avevo i vestiti e la pelle striati di sangue e un lungo strappo nella manica della giacca corazzata, come se fosse stata squarciata da qualcosa di dentellato e tagliente. Stringevo una guisarma insanguinata nella mano destra e il colletto di Jace nell'altra.

«Così pare» ammise Jace. «Ma non lo rimarrò a lungo, se non mi dai un'arma.»

Diedi una rapida occhiata in giro e lo lasciò, quindi mi sfili una spada angelica dalla cintura e gliela porsi. «Tieni. Si chiama Samandiriel.»

Jace aveva appena preso la spada, che un demone Drevak di media taglia corse verso di noi emettendo urla imperiose. Jace sollevò Samandiriel, ma io avevo già liquidato la creatura con un affondo della sua guisarma.

«Bell'arma» disse Jace, ma io guardavo oltre lui, la grigia figura afflosciata sul ponte.

«È l'Inquisitrice? È...»

«È morta» disse Jace.

La mascella si irrigidì. «Che liberazione. Com'è successo?»

Jace stava per rispondere, ma fu interrotto da un grido: «Alec! Jace!» Era Isabelle, che correva verso di noi attraverso il fetore e il fumo. Indossava una giacca scura aderente macchiata di sangue giallastro. Aveva i polsi e le caviglie circondate da catene dorate e ornate di rune, e la frusta arrotolata intorno al corpo come un cavo di elettro. Allargò le braccia. «Jace, pensavamo...»

«No.» Jace indietreggiò, sottraendosi al contatto. «Sono zuppo di sangue, Isabelle. Non farlo. » 

Un'espressione ferità le attraversò il viso. «Ma ti abbiamo cercato tutti... mamma e papà, loro... »

«Isabelle!» gridò Jace, ma era troppo tardi: un massiccio demone-ragno si impennò dietro di lei e schizzò veleno giallo dalle zanne. Quando il liquido la colpì, Isabelle urlò, ma la sua frusta guizzò con velocità abbagliante, tranciando il demone, che cadde con un tonfo sul ponte, tagliato in due metà, e scomparve.

Jace si lanciò verso Isabelle proprio mentre lei si afflosciava in avanti. Quando l'afferrò, cullandola goffamente, la frusta le scivolò di mano. Jace vide quanto veleno l'aveva raggiunta: era schizzato quasi tutto sulla giacca, ma una parte le aveva colpito la gola e, nei punti in cui era andato a segno, la pelle bruciava e sfrigolava.

Isabelle gemeva in maniera appena percettibile... lei che non mostrava mai il dolore.

«Dalla a me.» Lasciai cadere l'arma e corsi ad assisterla.  La presi dalle braccia di Jace e la deposi delicatamente sul ponte. Mi inginocchiò accanto, quindi, con lo stilo in mano, alzai lo sguardo su Jace. «Tieni a bada chiunque arrivi mentre la guarisco.»

Jace non riusciva a staccare gli occhi da Isabelle. Il sangue le sgorgava dal collo colandole sulla giacca e inzuppandole i capelli.

«Dobbiamo portarla via dalla barca» dissi con voce roca. «Se resta qui...»

«Morirà?»

Passavo la punta dello stilo sulla gola della sorella il più delicatamente possibile. «Moriremo tutti. Sono troppi. Ci stanno massacrando. L'Inquisitrice se l'è meritato, di tirare le cuoia... è tutta colpa sua.»

«Un demone Scorpios ha tentato di uccidermi. L'Inquisitrice si è messa in mezzo» disse Jace, chiedendosi perché difendesse una persona che odiava. «Mi ha salvato la vita.»

«Davvero?» Lo stupore era evidente nella mia voce. «Perché?»

«Immagino avesse deciso che ne valeva la pena.»

«Ma ha sempre...» mi interruppi e la mia espressione si fece allarmata. «Jace, dietro di te... sono in due...»

Jace piroettò su se stesso. Due demoni si stavano avvicinando: un Divoratore, col corpo da coccodrillo, i denti seghettati e la coda da scorpione piegata in avanti sopra la schiena, e un Drevak, la pallida pelle biancastra da larva che luccicava alla luce della luna. Jace mi sentì, alle sue spalle, sussultare inquieto, poi Samandiriel si staccò dalla sua mano, ritagliando una traiettoria argentea nell'aria. Recise la coda del Divoratore, proprio sotto la sacca pendula del veleno, all'estremità del lungo pungiglione. Il Divoratore urlò. Il Drevak si girò confuso... e si beccò in piena faccia la sacca del veleno, che si spaccò, inondandolo. Il Drevak emise un lungo grido di stupore e si afflosciò, la testa corrosa fino all'osso. Sangue e veleno schizzarono sul ponte mentre svaniva. Il Divoratore, con il sangue che sgorgava dalla coda mozza, si trascinò qualche passo più in là e scomparve a sua volta.

Jace si chinò e prese con cautela Samandiriel. Il ponte di metallo sfrigolava ancora nel punto in cui il veleno del Divoratore lo aveva inondato, formandovi una sventagliata di forellini simile a un merletto.

«Jace.» mi ero alzato e tenevo per un braccio Izzy, pallidissima ma dritta in piedi. «Dobbiamo portare Isabelle via di qui.»

«Bene» disse Jace. «Pensaci tu. Io vado a occuparmi di quello.»

«Di cosa?» chiesi perplesso.

«Di quello» ripeté Jace, e lo indicò. Qualcosa veniva verso di loro tra il fumo e le fiamme, qualcosa di enorme, gibboso e massiccio. Cinque volte e passa le dimensioni di ogni altro demone sulla nave, aveva il corpo corazzato munito di numerosi arti, ognuno dei quali terminava con un artiglio cosparso di aculei. Aveva i piedi da elefante, grossi e piatti, e la testa di una zanzara gigante. Gli enormi occhi da insetto e la proboscide pendula color rosso sangue. 

Io rimasi senza fiato. «Che diavolo è?»

Jace ci pensò per un attimo. «Qualcosa di grosso» disse infine. «Molto grosso.»

«Jace...»

Jace si girò e guardando me e poi Isabelle. «Alec. Porta Isabelle alla scala, adesso, o moriremo tutti.»

Incrociai il suo sguardo e lo sostenni per un momento. Poi annuì e spinsi mia sorella, che continuava a protestare, verso il parapetto. L'aiutai a montarci sopra e a scavalcarlo. Mi fermai un secondo a osservare Jace e pensavo:"Non morire Jace, raziel ti prego proteggilo".

Isabelle, nascosta alla vista, lanciò un grido acuto, mentre mi affrettavo a farmi cadere giù dal parapetto e atterravo sul ponte della nave. La guisarma giaceva nel punto in cui l'avevo lasciata cadere; lei l'afferrò e si mosse per mettersi al fianco di Jace e affrontare il demone che si avvicinava. Ma non fece molta strada.

Mentre si scagliava su Jace, all'improvviso il demone scartò e si lanciò verso di me con la proboscide che ondeggiava famelica avanti e indietro.

Jace piroettò per coprire, ma il ponte di metallo su cui si trovava, deteriorato dal veleno, cedette sotto di lui. Un piede gli rimase incastrato e Jace cadde pesantemente a terra. Feci appena in tempo a gridare il nome di Jace che il demone gli fu addosso. Lo trafisse con la guisarma, ficcandogliela profondamente nella carne. La creatura si rovesciò indietro lanciando un grido stranamente umano, mentre dalla ferita sgorgava un fiotto di sangue nero.

Indietreggiai, allungando la mano verso un'altra arma, proprio mentre l'artiglio del demone fendeva l'aria, atterrandolo sul ponte. Poi la proboscide mi avviluppò.

Da qualche parte, Isabelle gridava. Jace cercò disperatamente di estrarre il piede dal ponte; alla fine si liberò, ferendosi con i bordi metallici taglienti, e barcollando si rimise in equilibrio. Sollevò Samandiriel. La luce balenò dalla spada angelica vivida come una stella cadente. Il demone indietreggiò emettendo un sibilo sommesso. Allentò la presa su di me. Poi all'improvviso il mostro spinse indietro la testa con sorprendente velocità e mi scaraventò via con una forza immensa. Colpì violentemente il ponte viscido di sangue, scivolai... e caddi con un unico grido rauco oltre il bordo della nave.

Isabelle gridava il mio nome; le sue grida erano come chiodi che si conficcavano nelle orecchie. 

Probabilmente la ferita non era grave, ma non ero messo molto bene, ero vivo, ma il dolore era indicibile e l'ansia dei miei cari mi spingeva a riprendermi. Poi un pensiero:"Devo sopravvivere per rivedere Magnus".

città di cenere secondo Alexander Gideon LightwoodWhere stories live. Discover now