CAPITOLO 21: L'Armistizio Dell'Otto Settembre

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Mirko parcheggia la Cinquecento scassata nello spiazzo del Bagno Sociale.

Scorgo un timido sole oltre le nuvole grigie, sopra il mare in tempesta, e le gocce di pioggia che muoiono sui finestrini della macchina, creando tanti piccoli ruscelli sul vetro appannato.

Sospiro, mentre avverto l'inconfondibile scricchiolio della ghiaia sotto i pneumatici, un rumore così simile al mio cuore distrutto in mille pezzi che, e l'ho veramente pensato, credo che le ruote dell'auto stiano demolendo i cocci scheggiati di ciò che rimane di me.

Dei miei sentimenti.

Della mia anima.

"Sto male... sto male da morire..."

Quando il mio migliore amico spegne il motore, apro la portiera lentamente, a testa bassa, trattenendo il fiato; il vento umido che proviene dalla spiaggia fa dimenare i miei capelli rossi, frustando le ultime lacrime che mi restano.

Il profumo del salmastro non è mai stato così struggente, mi dico.

"Non lo sentirò più... non potrò più assaporare questo odore, non potrò più stare bene quando vedrò il mare..."

E, per farmi ancora più male, prima di entrare nella baracchina, rivolgo lo sguardo verso l'orizzonte, verso quella scogliera che si propaga in perpendicolare, fino ad arrivare all'isolotto di sassi, fino a lei, alla...

"... Laguna..."

Rimango ferma, per qualche istante, ad ammirare il panorama più bello e triste della mia vita, sotto un cielo che piange.

E, stringendo il ciondolo dei miei genitori, non posso che sospirare di nuovo, mordendomi il labbro, tentando di non abbandonarmi a lacrime d'addio.

«Sel, dobbiamo entrare...» Noemi poggia una mano sulla mia spalle, Mirko temporeggia al mio fianco. «Mancano cinque minuti a mezzogiorno...» sussurra.

Tremo, cerco di non iniziare a singhiozzare come una bambina; non voglio mostrarmi così dinnanzi ai miei nonni, voglio far finta di essere forte.

«S... sì...» balbetto, mentre serro le mascelle.

E apro la porta.

"Non ce la posso fare..."

Il cucinotto del Bagno Sociale è così, come è sempre stato. Almeno per adesso, per un'ultima volta.
Tiro un'occhiata commossa verso la chitarra di papà, la pila di libri impolverata, l'angolo cottura sul quale mia madre, così come Libera mi aveva raccontato, preparava la torta di mele più buona del mondo.

Tutto uguale. Tale e quale a come loro avevano lasciato, ci avevano lasciato.

"E distruggeranno tutto... di questo posto non resterà niente... solo macerie... solo ricordi sbiaditi dal tempo..."

La mia famiglia è già seduta attorno al tavolo di legno, in religioso silenzio, in attesa della fine.
Nonna Frida e Nonno Ugo sono irreversibilmente tristi, stranamente silenziosi, insopportabilmente vinti.

E li vedo così piccoli, così vecchi, così diversi.
E mi fa male la loro visione.
Fa più male di una coltellata al cuore.

"Ma non posso farci niente... sono impotente... come loro, come tutti..."

Gora ha appena preparato una tisana, l'ultima, e la sta versando nelle tazze di porcellana. Abbozza un sorriso tirato, non ci crede nemmeno lui.

«Eccovi, ragazzi. Accomodatevi...» mormora, con quel torno gentile che maschera un'agonia tangibile.

In silenzio, con una voragine di nero dentro di me, mi siedo accanto a mia sorella, senza la forza di dire una parola; Libera, con la faccia stanca e pallida, mantiene lo sguardo verso la tazza fumante, e tamburella le dita sulla tavola, assorta nei suoi mille pensieri di tristezza.

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