7. Inutile scarto

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Punto III del C.E.T.: La disobbedienza di un Trivial nei confronti di qualunque suo superiore verrà punita con la morte.
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-Hei, tu!-. L'uomo dai vestiti eleganti che fino ad un attimo prima era fermo davanti al capannone, adesso aveva iniziato ad avanzare velocemente puntando la mano verso uno degli individui all'interno. Aveva un modo tutto suo di camminare; schiena dritta e sguardo sempre sollevato, proprio come farebbe un soldato; peccato che, al contrario, pareva essere un comandante in quella situazione. Gli stivaloni di pelle che portava ai piedi iniziarono ad emettere un ticchettio fastidioso non appena oltrepassò la porta ed iniziò a camminare sul pavimento.
-Dico a te, idiota! Alzati!-.
Etina spostò la testa di lato, cercando una posizione che le avrebbe consentito di recuperare la visibilità; si spostò poi più volte a sinistra, finché non finì per sporgere il volto fuori dalla pila di mattoni.
L'uomo dagli abiti eleganti era adesso fermo davanti ad un gruppo di lavoratori, i quali avevano cessato immediatamente di fare ciò che stavano facendo per rivolgergli la loro massima attenzione. Era palese che si trattasse del loro capo, ed altrettanto palese era che lo temessero in modo particolare.
-Stavo parlando con te!- gridò l'uomo, sferrando un calcio ad un individuo di cui Etnia aveva notato soltanto adesso la presenza; sembrava un uomo di mezza età, ed era disteso a terra proprio nel mezzo del gruppo. Il calcio lo colpì direttamente sulla pancia, ma non uscì alcun grido dalla bocca della vittima, né questa si mosse con l'intenzione di rimettersi in piedi; il poveraccio non fece altro che chiudersi su sé stesso, in posizione fetale, coprendosi la testa con le mani.
-Inutile scarto- esclamò ancora l'uomo dai vestiti eleganti, sputandogli addosso con disprezzo. -Alzatelo- ordinò poi agli altri schiavi presenti. Etnia spostò lo sguardo su di loro, e poté finalmente vederli bene; si rese conto che il loro aspetto era esattamente quello che il vecchio le aveva descritto. Non c'era alcun dubbio: quelli erano Trivial.
Tutti quanti avevano la testa completamente calva; alcuni erano vestiti di stracci, altri portavano solo i pantaloni restando a petto nudo.
Etnia sentì una strana sensazione nascere dentro di sé; un senso di malessere indefinito. Era la prima volta che le accadeva di sentire una cosa del genere, e questo la spaventò. Quella pressione sulla pancia, i battiti cardiaci che aumentavano ed i leggeri tremiti alle ginocchia; erano tutte sensazioni che stava conoscendo per la prima volta.
Immobilizzata dalla paura e dallo stupore, la ragazza restò immobile a guardare...
E vide tutto.
Vide quell'uomo afferrare dalla pila delle macerie un pezzo di lamiera arrugginita, ed usarla per colpire il Trivial che era stato appena sollevato a forza dagli altri. Lo colpì con una violenza disumana; il ferro, sfibrato e spezzato in modo irregolare, entrava nella carne tenera con estrema facilità, tanto che al terzo colpo il volto del poveretto era già completamente sfigurato. Le sue grida erano tanto disperate che a malapena sembravano provenire da un essere umano.
Litri di sangue scendevano giù dal suo collo, colorando di intenso scarlatto la pelle pallida. Un ultimo colpo dal pezzo di lamiera si portò via il suo occhio sinistro, per poi tranciare la carotide; e fu allora che il Trivial cadde a terra, ai piedi degli altri, mentre esalava il suo ultimo respiro.
La sua unica colpa: non avere più la forza di reggersi in piedi.
Etnia si portò le mani alla bocca, e sentì gli occhi inumidirsi. Fu uno soltanto, il motivo per cui non scoppiò a piangere: era troppo spaventata.
Mai avrebbe immaginato di vedere cose del genere in tutta la sua vita. La violenza era sempre stata per lei una leggenda, qualcosa di vero ma molto lontano, un vago ricordo che apparteneva ad un passato che tanto lei non avrebbe mai visto né vissuto.
Ma si sbagliava.
Il sangue si riunì in una grossa pozza sotto al cadavere, allargandosi lentamente lungo il pavimento sporco. Quella non fu che l'ultima visione che Etina riuscì a sopportare: un conato di vomito la costrinse a piegarsi su sé stessa, tappandosi la bocca con le mani.
Inspirò aria e tentò di alzare la testa, ma subito ne arrivò un altro, ed un altro ancora. Per sua fortuna, nello stomaco non aveva che un pò d'acqua.
La ragazza si passò le dita tra i capelli, mentre tentava di riprendere il controllo; deglutì più e più volte, per cacciare dalla bocca il sapore amaro che adesso percepiva, e si disse che sarebbe dovuta andar via subito da quel posto maledetto.
Si alzò in piedi; era terrorizzata. Le ginocchia tremanti stentavano a reggerla, e sentiva la testa girare vertiginosamente. Non riusciva più a togliersi dalla testa quella visione; in qualunque direzione si voltasse, continuava a vedere il rosso inteso di quel sangue. Impregnava l'aria, la terra, i suoi vestiti; aveva l'impressione di sentirle l'odore, o addirittura il sapore.
La sua mente, fragile ed infantile, non poteva sopportarlo.
Ormai troppo confusa per muoversi con furtività, la ragazza tornò sui suoi passi, correndo in modo scoordinato, mentre si asciugava le lacrime con le mani. Percepì il forte calore del sole che era tornato a bruciare la sua pelle, e l'asfissiante aria bollente che saliva dalla terra sabbiosa e le entrava dritta nei polmoni. Le lacrime ed i capelli scompigliati le compromettevano la vista, e la sua mente delirante non le permetté più di ragionare con lucidità.
"Devo andare via". Soltanto questo riuscì a pensare; peccato che non ricordasse nemmeno da quale direzione fosse arrivata. Continuò a correre sulla sabbia scottante, ma senza volerlo si ritrovò dinnanzi ad un secondo capannone.
Direzione sbagliata.
Sollevò la testa e ne scrutò rapidamente la forma, per poi compire un giro su sé stessa nel tentativo di capire dove avesse sbagliato.
Pensa. Pensa. Pensa.
Il suo cervello, però, si rifiutava di rispondere. Troppa era la paura.
Il suo sguardo si allungò sull'orizzonte che adesso si trovava davanti, e notificò la presenza di un gruppo di Trivial, nel mezzo della distesa sabbiosa, intenti a trasportare un grosso tubo d'acciaio.
La ragazza si voltò indietro e riprese a correre in una direzione qualunque, sperando con tutta sé stessa che presto avrebbe visto, anche solo in lontananza, le scale che conducevano al cancello da cui era arrivata.
Corse, e mentre correva iniziò a piangere disperatamente. Le forze impiegate per bagnare il suo volto di lacrime la fecero dapprima rallentare, poi vacillare. Si fermò di colpo sulle gambe che ormai tremavano come foglie al vento, ed issando lo sguardo ciò che vide davanti a sé non fu che l'ennesimo capannone.
Si era persa del tutto.

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