3. Richiesta d'aiuto

3.9K 360 31
                                    


3
RICHIESTA D'AIUTO

Si è sempre responsabili
di quello che non si è
saputo evitare.
Jean-Paul Sartre


Mario sognava di diventare ostetrico. Anzi, no: non ostetrico e basta. Lui sognava di diventare il più bravo ostetrico in circolazione. Un pensiero modesto da parte sua, ma d'altronde - si ripeteva in continuazione - per essere qualcuno ed andare lontano bisogna crederci fino in fondo.

Chi si accontenta gode così così, diceva Ligabue, e Mario aveva finito per fare sua questa filosofia di vita.

Non per tutto, in realtà. Solo per le cose in cui credeva di potercela fare davvero. E il suo futuro da ostetrico era certamente una di queste.
La più importante.

Mario era convinto di poter diventare un ostetrico noto nell'ambiente per la sua bravura, non perché peccasse di umiltà, sia chiaro, ma perché sentiva l'ostetricia nelle sue ossa, come se fosse un prolungamento di sé e parte integrante del suo organismo. Credeva che far nascere i bambini, vederli venire alla luce, sentirli fare il loro primo pianto e assistere al contatto primario tra madre e figlio fosse la cosa più bella del mondo. E da quando aveva iniziato il suo terzo ed ultimo anno universitario, che gli permetteva di svolgere il suo tirocinio pratico direttamente in sala parto, se ne era convinto ancora di più. Amava quel lavoro e amava i bambini.

Le sue compagne di corso - sì, era l'unico maschio a frequentare quella facoltà nel suo anno di immatricolazione - si divertivano a stuzzicarlo e a prenderlo in giro per la sua scelta di vita piuttosto insolita per un uomo, e non c'era giorno in cui non se ne uscissero con le tipiche frasi ironiche su quanto secondo loro più che adorare il miracolo della nascita adorasse poter guardare e mettere mano negli organi genitali femminili senza doverne chiedere il permesso o risultare una maniaco sessuale.

Mario ci rideva su, sapeva che le sue compagne scherzavano quindi non se la prendeva - e con il senno di poi capì che probabilmente lo facevano soprattutto per fargli sputare il rospo circa il suo orientamento sessuale -, ma non perdeva comunque mai occasione per spiegare loro che in realtà c'erano delle motivazioni molto più profonde a spingerlo verso quella professione. Nulla a che vedere quindi con la possibilità di avere molte donne nude tutte in fila per lui, dal momento in cui a lui nemmeno piacevano.

I suoi tre migliori amici, invece, un po' lo invidiavano e quando li chiamava per sapere come procedesse la vita a Roma non mancavano mai di fare domande, battute o discorsi con doppi sensi. L'ultima volta in cui era sceso nella sua città natia, in realtà, gliel'aveva confessato di essere gay, e anche con non poca difficoltà, ma per loro non era cambiato assolutamente nulla e a distanza di qualche mese continuavano imperterriti ad ironizzare sul suo mestiere facendolo sentire accettato e voluto come prima. E così era: non era cambiato niente, solo la distanza che li divideva, ora moltiplicata a causa del suo trasferimento a Verona, e qualche battutina sconcia se Mario gli rivelava, per esempio, di aver visto un bel ragazzo.

Ed era proprio al telefono con uno di loro, all'uscita dell'ospedale, quando il più bel ragazzo che avesse mai visto nei suoi 23 anni di vita - quello tutt'occhi verdi che aveva conosciuto qualche giorno prima - gli si parò davanti guardandolo fitto fitto, impedendogli di proseguire per la sua strada.
Mario si affrettò a salutare Matteo e a riporre il telefono nella tasca dei pantaloni, poi chiese a Claudio se avesse bisogno di qualcosa.

"Non so come si cresce un bambino", disse senza tanti giri di parole, cercando un aiuto nello sguardo del tirocinante di fronte a sé.

Aveva aspettato Mario per ore, seduto fuori alla clinica ospedaliera, perché non sapeva a chi altro rivolgersi. Per questo appena lo aveva visto uscire si era frapposto tra lui e la sua meta. Aveva bisogno di aiuto e quel ragazzo poco più grande di lui poteva essere la sua unica fonte di ausilio.

"Ok", corrugò la fronte Mario, non capendo, "e io cosa c'entro?".

Claudio si morse il labbro inferiore, non sapendo cosa dire. Non si trovava in una posizione facile; tutt'altro, si sentiva completamente ed irrimediabilmente nella merda.

Erano passati dei giorni e purtroppo o per fortuna - ancora non sapeva dirlo con esattezza - il figlio di sua sorella, Pietro, era stato affidato a lui e oggi era il grande giorno. Per modo di dire, s'intende.

"Devo portarlo a casa oggi", spiegò all'altro infatti, "e io non so nemmeno come si prende in braccio un ranocchio del genere".

Mario rimase stupito da quella rivelazione. Solo qualche giorno addietro Claudio si era dimostrato tutt'altro che propenso a crescere quel bambino mentre ora lo stava per portar via dall'ospedale per offrirgli un tetto sotto cui stare nel corso della sua vita. Sorrise felice e, sebbene lui non c'entrasse nulla, si sentì soddisfatto e lieto per quel neonato destinato fin dal principio a non conoscere mai la madre ma che almeno avrebbe avuto uno zio sicuramente meraviglioso - pensiero esclusivamente di Mario al momento, ovviamente - a prendersi cura di lui.

"Imparerai. Sarà facile", lo rassicurò Mario osservando però l'autobus sopraggiungere alla fermata.

Claudio seguì la direzione del suo sguardo e gli chiese se avesse fretta ricevendo un'alzata di spalle dal quasi ostetrico in risposta. "Posso prendere il successivo", spiegò, e Claudio, nonostante non glielo disse, gliene fu grato.

"Ho bisogno del tuo aiuto", si decise quindi a dire, prima che anche il secondo pullman arrivasse a destinazione. "Ho bisogno che tu ti occupi del bambino al posto mio".

Mario sgranò gli occhi e dopo un primo istante di stupore gli rivolse uno sguardo incredulo e allo stesso tempo disgustato. Gli chiese se stesse scherzando, se fosse per caso impazzito, ma Claudio non lo era affatto. Era serio: non poteva occuparsene lui. Non era quella la vita a cui aveva pensato. "Ti pago ovviamente. Ho tanti soldi da parte", provò a persuaderlo, "dal tuo accento deduco tu sia un fuori sede, sicuramente avrai bisogno di un lavoro per racimolare qualche-", ma Mario non gli permise nemmeno di continuare e finire la frase, del tutto inorridito da ciò che stava sentendo, e prese ad allontanarsi a passo svelto.

Imprecando tra sé e sé, Claudio lo raggiunse con poche ampie falcate, provando a giustificarsi e scusarsi. "Almeno per i primi giorni, ti prego", ci riprovò perché, davvero, non aveva idea di cosa fare con quel piccolo di uomo e l'unica persona che, tra virgolette, conosceva, in grado di occuparsene era proprio Mario.

Mario aveva scelto spontaneamente di avere a che fare con dei bambini ad ogni ora del giorno, dannazione, lui no. Perché non capiva il suo reale bisogno?

"Ti rendi conto di quello che mi stai chiedendo?", sputò fuori Mario, sgomento. "Quel bambino è stato affidato a te, sei suo zio e devi fartene carico come se fosse tuo figlio! Se insisti ancora mi vedrò costretto a chiamare gli assistenti sociali, ti avviso", lo redarguì il tirocinante squadrandolo dalla testa ai piedi in maniera sprezzante prima di voltarsi per raggiungere la fermata del bus.

"Ok ascolta", ci riprovò, Claudio, il tono di voce più basso e simile ad una preghiera o richiesta di vero aiuto "puoi almeno accompagnarmi dentro a ritirarlo?".

"Non è un pacco, Claudio", lo ammonì il più grande, nello sguardo però un primo segno di cedimento. Si prese qualche istante per pensarci, perché era fermamente convinto di non poter lasciare il piccolo Pietro nella mani di quello psicopatico di suo zio senza prima essersi assicurato che sapesse per lo meno prenderlo in braccio, così finì per annuire e seguire Claudio all'interno dello stabile.

Fu esattamente in quel momento che il giuramento di Mario venne infranto per sempre.

L'aria per me Where stories live. Discover now