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Un solo pensiero mi occupava la mente da ore, da quando Dominic mi aveva lasciaro sul pavimento della camera da letto: io non potevo più stare lì. Non potevo più vivere con Dominic, e soprattutto stare con lui. Dovevo assolutamente trovare il modo di andarmene, scappare e rifugiarmi in un luogo dove lui non mi avrebbe trovato.
Appena Dominic uscì di casa, mi alzai dal letto, dove avevo finto di dormire per tutta la notte, e corsi in bagno. Mi lavai il viso, costringendomi a non guardare il riflesso sullo specchio. Non volevo vedere in che stato mi aveva ridotto Dominic. Mi sentivo dolorante e sapevo di non essere un bello spettacolo.
Dopo aver preso un paio di scatole e la mia valigia dalla mansarda, tornai in camera, dove raccolsi le mie cose e inscatolai gli ultimi anni della mia vita.
Quando chiusi le scatole e la valigia mi venne voglia di urlare; ma, nel momento in cui misi tutto nel bagagliaio della mia auto, cominciai a piangere. Non riuscii a capire se le mie fossero lacrime di gioia o di dolore. Forse entrambe le cose, ma sapevo che stavo piangendo anche perché non sapevo dove andare. Tornare nella mia vecchia casa era fuori discussione: mia madre non credeva ad una sola delle mie parole, e poi quello sarebbe stato il primo posto dove Dominic mi avrebbe cercato. Accantonai subito l'ipotesi e iniziai a guidare.
Sarei potuta andare in un motel; ma siccome la mia permanenza sarebbe stata lunga e non avevo abbastanza contanti per pagare, avrei dovuto usare la carta di credito e, conoscendo Dominic, lui l'avrebbe fatta rintracciare da suo padre. Come avrebbe cercato di rintracciare il mio cellulare. Prima che i miei pensieri arrivassero ad una conclusione, avevo già spento il telefono. Non dovevo rischiare, altrimenti sarebbe stata la fine.
Appena mi trovai sulla strada principale della città, premetti il piede sull'acceleratore per mettere più distanza possibile fra me e l'appartamento di Dominic. Fissavo la strada, concentrandomi su qualsiasi cosa tranne che sui miei pensieri. Se avessi ascoltato la mia mente sarei scoppiata di nuovo a piangere, e non volevo più farlo.
Non sapevo dove stavo andando, o almeno così mi dicevo. Però, quando parcheggiai la macchina e mi avvia verso l'ingresso, sapevo che in fondo volevo andare lì. Attraversai l'atrio dell'ospedale, ripercorrendo gli stessi passi della settimana prima. L'unica cosa differente era che non zoppicavo più. Raggiunsi il bancone della reception sperando di rivedere l'infermiera dell'ultima volta, ma al suo posto c'era una ragazza bionda e magra. Aveva all'incirca la mia età e mi scrutò con i suoi occhi verdi incuriositi. I capelli chiari erano raccolti in una coda ordinata e il viso acqua e sapone mi ricordava le cheerleader del liceo che frequentavo.
"Buongiorno" mi salutò con una voce acuta che mi fece quasi sorridere.
"Salve" ricambiai il saluto con freddezza. "La settimana scorsa sono venuta qui perché mi ero fatta male cadendo dalle scale. Avrei bisogno di parlare con il medico che mi ha visitata."
"Mi sa dire il nome del dottore?"
Rimasi in silenzio per qualche secondo, sforzandomi di ricordare. "Dottor Barnes, credo."
La ragazza annuì, poi alzò la cornetta del telefono.
"Come si chiama?" mi chiese mentre compose un numero.
"Haylee Reed."
Appena pronunciai il mio nome, lei si voltò e parlò al telefono per pochi secondi.
"Il dottor Barnes arriva subito" mi comunicò dopo aver terminato la chiamata, poi si concentrò su quello che stava facendo prima che arrivassi.
Mentre aspettavo il dottor Barnes mi guardai attorno, ricordando ogni attimo del mio arrivo all'ospedale la settimana prima. Se mi concentravo riuscivo anche a sentire il dolore alla gamba e al torace, il forte odore di disinfettante che mi aveva invaso le narici, la paura che faceva quasi tremare il mio corpo.
"Haylee Reed." Una voce bassa e profonda si insinuò tra i miei pensieri.
Alzai lo sguardo, dapprima disorientata, poi ritornai in me quando incontrai gli occhi scuri del dottor Barnes.
"Buongiorno" lo salutai con esitazione, stupendomi del fatto che si ricordasse di me.
Lui venne nella mia direzione con passo sicuro e disinvolto, come se fossi una paziente con un appuntamento, ma nel suo sguardo notai quanto fosse sorpreso di vedermi.
"Vieni, andiamo nel mio studio." Alzò un braccio e con un gesto della mano indicò il corridoio che avevo attraversato una settimana prima su una sedia a rotelle.
Lo seguii ed entrai nella stanza dove mi aveva visitato. Era tutto come ricordavo: il lettino bianco, le sedie nere davanti alla scrivania, la poltrona dall'aria molto comoda del dottor Barnes, i due armadietti con le ante in vetro e lo scaffale pieno di medicinali ordinatamente riposti.
"Come stai?" mi chiese cauto, soppesando le parole.
"Penso che conosca già la risposta" replicai con voce bassa.
Non volevo essere scortese, ma non ero ancora pronta ad ammettere che stavo male. Ero riuscita ad andarmene e allontanarmi da Dominic, e questo era un grande passo. Col tempo sarei riuscita a farne altri. Inoltre, anche se avevo evitato di guardarmi allo specchio poche ore prima, sapevo che il mio viso portava i segni dell'ultima aggressione di Dominic. Quindi, il dottor Barnes poteva dedurre la risposta alla sua domanda soltanto guardandomi. Ne ero certa.
"Cosa ti porta qui?"
Per un momento valutai la possibilità di alzarmi e andarmene, ma ero arrivata fino a lì e non potevo tirarmi indietro. Ero pronta a cambiare la mia vita e dovevo essere forte. Dovevo avere coraggio.
"Io..." esitai, ripensando per l'ennesima volta al discorso che avevo preparato mentalmente nel parcheggio dell'ospedale.
Il dottor Barnes mi guardò con gli occhi pieni di speranza. Il suo sguardo era lo stesso di quello di un nonno che guarda il proprio nipote. Mi sentii protetta, al sicuro da Dominic.
"Sono caduta di nuovo dalle scale" asserii contro ogni mia previsione. Sapevo cosa avrei dovuto dire, eppure dalla mia bocca erano uscite parole diverse.
Il dottor Barnes mi fissò a lungo senza parlare e io sperai che capisse il mio messaggio in codice. La settimana prima aveva dedotto che qualcosa non andava e speravo che accadesse di nuovo la stessa cosa.
"Quando è successo?" mi domandò infine.
"Ieri sera" replicai abbassando lo sguardo. Mi vergognavo, e non sapevo neanche perché.
Il dottor Barnes iniziò a camminare avanti e indietro per la stanza con passo lento, testimone degli anni che gravavano sulla sue spalle. Ero certa che ormai si trovasse alla fine della sua carriera da medico.
"Dovresti..."
"Ho provato a parlarne con mia madre, ma non mi ha creduto" lo interruppi con voce rotta. "Mi ha accusato di aver inventato tutto per chissà quale motivo."
Gli occhi del dottor Barnes si colmarono di dolore, facendomi sentire più vicina alle lacrime.
"Sei andata alla polizia?" mi chiese, sedendosi sulla sedia vuota al mio fianco.
"Non posso. Lui è protetto."
Non potevo dire che Dominic era il figlio dello sceriffo, o almeno non subito. Il dottor Barnes avrebbe potuto raccontarlo a qualcuno e allora mi avrebbero trovata.
"Lui sa che sei qui?"
"No, sono scappata. Non potevo più stare lì, avevo paura. Temevo che potesse uccidermi. Lo temo ancora."
Stavo andando nel panico, mentre il dottor Barnes era calmo e lucido. Avrei tanto voluto essere come lui.
"Hai chiamato Trevor Anderson?"
Il nome mi riportò alla memoria il biglietto da visita che mi aveva dato il dottor Barnes e che non trovavo più.
"No, credo di aver perso il biglietto."
Il dottore si alzò, tornando dietro la scrivania e prendendo un altro biglietto da visita di Trevor Anderson.
"Ti prenderò un appuntamento con lui il prima possibile. Non perdere anche questo."
Lo ringraziai, afferrando e stringendo tra le dita il pezzo di carta che mi porse. Sentivo che quello era la mia ancora di salvezza e non dovevo assolutamente perderlo.
"Hai un posto dove andare?" La voce calma del dottor Barnes mi aveva fatto dimenticare per pochi istanti quel problema.
"Non ancora, lo sto cercando" mentii. Dovevo ancora cominciare la ricerca e non sapevo da che parte iniziare. Brancolavo nel buio.
Mi schiarii la voce e mi alzai. "Quando mi fa sapere per l'appuntamento? Se vuole posso passare più tardi..."
"Haylee, siediti" mi ordinò con tranquillità.
Obbedii in silenzio e mi accomodai nuovamente sulla sedia.
"Mia figlia si è trasferita in Canada due mesi fa e l'appartamento in cui viveva è vuoto. Potrai stare lì" disse, mentre estraeva un piccolo mazzo di chiavi dalla valigetta in pelle marrone dietro la sua poltrona.
"Cosa? Io..."
"Si trova sulla Bourdary Road, è un palazzo di quattro piani di fronte alla pasticceria. Questa è la chiave del portone d'ingresso, mentre questa è quella dell'appartamento. È il numero 5F al terzo piano." Mi passò le chiavi senza darmi il tempo di ribattere. "Sul retro del palazzo ci sono dei parcheggi e..."
"Non posso accettare" lo interruppi a bassa voce, incredula per ciò che stava accadendo.
"Sto cercando di aiutarti."
"Lo so e la ringrazio molto, ma... come faccio a ripagarla? È davvero troppo quello che sta facendo per me. Perché?"
Il dottor Barnes appoggiò le chiavi dell'appartamento sulla scrivania e si fece scuro in volto.
"Durante i miei anni di carriera ho visto diverse donne nella tua stessa situazione, e nessuna di loro si è fatta aiutare. Non so dire perché: forse per orgoglio, o per paura. Alcune avevano dei figli e non volevano farli soffrire. Non so cosa sia successo e come è andata a finire la loro storia; ma io voglio, Haylee, che tu accetti il mio aiuto. Puoi cambiare la tua vita e ricominciare daccapo."
Una lacrima silenziosa mi rigò una guancia mentre ascoltavo le parole del dottor Barnes.
"Mi ricordi molto mia figlia."
Non seppi come ribattere, così mi limitai a restare in silenzio con lo sguardo fisso sulle chiavi della mia nuova casa.

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