23

379 49 7
                                    

Lo shopping si rivelò una perfetta terapia per la mia depressione, ma fu meno salutare per il mio conto in banca. Per fortuna potevo contare sul fondo che mio padre mi aveva dedicato per farsi perdonare la sua assenza. Non amava più mia madre, ma almeno ogni tanto si ricordava di avere una figlia.
Quando rientrai a casa era già sera e, dopo una giornata passata nei negozi, mi sentivo davvero stanca. Non provai nemmeno a riporre i miei acquisti nell'armadio; mi stesi sul divano e mi addormentai subito. Per una volta i pensieri non mi assillarono facendomi mancare il respiro. Per una sera non mi sentii vuota, morta, perché la stanchezza era così forte che mi impedì di riflettere sulla mia vita.
Il mattino dopo furono i crampi allo stomaco a svegliarmi: avevo una fame terribile che mi costrinse a correre in cucina. Agguantai una scatola di cereali integrali al miele, una tazza e il cartone del latte; poi tornai in soggiorno e accesi il televisore. Non sopportavo più il silenzio e avevo bisogno di un collegamento con il mondo reale, così mi sintonizzai sul canale delle notizie.
Tra una cucchiaiata e l'altra della mia colazione, ascoltai una giovane donna raccontare gli eventi dell'ultima ora: un'esplosione in Iraq, l'apertura di una nuova catena di ristoranti a New York, l'aumento dell'effetto serra. Avrei voluto sentire parlare di qualcosa di bello, che mi trasmettesse un po' di ottimismo, e sottrarmi per un istante al dolore e alla rabbia che continuavo a provare.
Distolsi lo sguardo dallo schermo e mi soffermai sulla busta di vestiti vicino al tavolino. Erano quattro e contenevano tutto quello che avrei indossato al matrimonio di Janine: un vestito lungo con sfumature lilla e viola senza spalline, un paio di sandali argento, una borsetta dello stesso colore delle scarpe e dei trucchi nuovi. Ero felice per quello che avevo comprato, più o meno, ma Janine era più entusiasta di me.

Il giorno prima del matrimonio arrivò presto e, puntualmente, Janine mi chiamò mentre stavo salendo sul taxi in direzione dell'aeroporto. Io ero emozionata all'idea di assistere al giorno più importante della sua vita, mentre lei era terrorizzata.
"A che ora hai il volo?" mi domandò con voce piena di ansia.
"Fra due ore." Caricai il borsone nel bagagliaio e salii in auto comunicando l'indirizzo al tassista.
"Ti vengo a prendere all'aeroporto."
"Pensavo che avrei preso un taxi" le feci notare osservando la città dal finestrino.
"Ho cambiato idea" si limitò a dire. La voce tesa come una corda di violino.
"Ti senti bene?"
Janine non rispose subito, poi sbuffò. "No, ho paura."
"Penso che sia normale. Stai per compiere un passo importante."
"Oddio!" Janine grugnì, emettendo un verso davvero poco femminile che mi fece quasi ridere. "Ho bisogno di parlare con te. Appena arrivi qui..."
"Ti prometto che lo faremo" la interruppi per rassicurarla.
"Grazie" asserì, poi chiuse la telefonata.
L'aeroporto non era affollato come mi aspettavo e riuscii a salire sull'aereo e prendere posto in mezz'ora. Per fortuna nessuno si sedette di fianco a me, così potei trascorrere il viaggio in maniera tranquilla. Lessi una rivista di moda e continuai a scrivere la recensione sul penultimo libro che mi aveva inviato Janine. Si trattava di un romanzo horror ed era anche il primo libro di quel genere che avevo letto. Mi era piaciuto, ma purtroppo non così tanto. Durante la lettura avevo capito che quello non era il tipo di romanzo adatto a me.
Quando il pilota annunciò l'atterraggio all'aeroporto di New York, allacciai la cintura di sicurezza e guardai fuori dal finestrino. Tra le nuvole chiare riuscivo a intravedere i profili dei palazzi e, in lontananza, vidi anche la Statua della Libertà. Era un paesaggio bellissimo. Dall'alto, mi sentivo la padrona del mondo, al sicuro da tutto.
Appena uscii dall'aeroporto, Janine mi vide e iniziò a gesticolare per attirare la mia attenzione. Si trovava di fianco a un Suv grigio che probabilmente aveva noleggiato.
"Ciao, com'è andato il viaggio?" mi domandò quando le fui di fronte.
"È stato tranquillo."
"Per fortuna. Il volo mio e di Bernard ha attraversato un fronte temporalesco e ci sono state delle turbolenze per mezz'ora. Credevo di morire." Salì in macchina, mentre io presi posto dal lato del passeggero.
"Quando siete arrivati?"
"Due giorni fa. Dovevamo fare gli ultimi controlli." La sua voce si incrinò leggermente. Non era da lei.
"Ti senti bene?" le chiesi lanciandole un'occhiata.
Il suo aspetto era diverso dal solito, meno curato, con i capelli un po' spettinati e nemmeno una traccia di trucco. Quello che indossava, però, fu la cosa che mi allarmò di più: felpa e pantaloni di una tuta. Janine non si vestiva mai così quando doveva uscire di casa.
"L'albergo è vicino all'aeroporto. Fra cinque minuti saremo lì."
Per tutto il resto del tragitto Janine non aprì bocca, cosa del tutto inusuale per lei. Borbottò qualcosa che non riuscii a capire solo quando accostò l'auto davanti all'entrata di un imponente e lussuoso albergo. Per un momento mi sentii sollevata nel sapere di essere ospite di Janine e Bernard, perché di sicuro non avrei potuto permettermi di trascorrere una notte lì.
"Questa è la tua camera." Aprì la porta e mi diede una tessera.
Entrai dopo di lei, osservando con stupore la suite in cui mi trovavo. Non era enorme, ma neanche piccola. Era perfetta. Al centro c'era un tappeto grigio scuro dall'aria soffice, addossato alla parete opposta alla porta, invece, si trovava un ampio letto sufficiente ad ospitare tre, forse anche quattro, persone. La stanza era dotata anche di una scrivania in mogano, aria condizionata – non che ce ne fosse bisogno –, un minibar e servizio in camera disponibile ventiquattro ore su ventiquattro. Se la suite era così bella e accessoriata, non osai immaginare il bagno.
Appoggiai il borsone a terra, guardando l'enorme TV a schermo piatto alle spalle di Janine, ancora vicino alla porta.
"Ti piace?"
Alzai un sopracciglio, sapendo quanto fosse inutile quella domanda.
"Non c'è bisogno di chiederlo. Basta guardare la mia faccia." Mi puntai un dito sul viso e Janine sorrise. Il primo sorriso sincero che le avevo visto fare da quando ci eravamo incontrate all'aeroporto.
Mi sedetti sul bordo del letto, sprofondando nel materasso morbido, e dovetti reprimere l'impulso di sdraiarmi e dormire tutto il giorno.
"Sputa il rospo" ordinai, alzando gli occhi su Janine.
Lei sospirò, poi venne a sedersi di fianco a me dopo aver chiuso la porta.
"Il matrimonio è domani." La sua voce bassa e roca.
Annuii, anche se lei non stava guardando me, bensì l'armadio bianco laccato di fronte a noi.
"Sto facendo la cosa giusta?" mi chiese dopo qualche secondo di silenzio.
Quella domanda confermò i miei sospetti: la crisi era arrivata.
"Spiegati meglio" la esortai.
"È da stanotte che penso a quello che sto per fare, e non riesco a non chiedermi se tutto questo sia giusto. Se Bernard è giusto per me."
Avrei voluto dire qualcosa per tirarla su di morale, ma non sapevo cosa. Di sicuro non potevo fare affidamento sulle mie disastrose esperienze sentimentali.
"Prima di stanotte avevi dei dubbi?"
Janine scosse la testa, sempre con lo sguardo fisso sull'armadio.
"Sai, penso che sia normale. È un passo importante ed è comprensibile essere nervosi e spaventati. Tu lo ami?"
Si prese la testa tra le mani, appoggiando i gomiti sulle ginocchia. "Non so più nemmeno questo."
"Ascoltami." Mi alzai, poi mi chinai di fronte a lei spostandole le mani dal viso. "La paura ti fa pensare cose che non sono vere. Fino a ieri stavi bene e non avevi dubbi. Sei stressata per via dell'organizzazione del matrimonio, che hai gestito da sola, e i tuoi dubbi sono causati da tutto questo. Domani, quando vedrai Bernard all'altare, le tue paure di dissolveranno. E poi, in luna di miele, sarà ancora meglio." Le feci l'occhiolino e lei si asciugò una lacrima.
Annuì una volta ricambiando il mio sorriso.
"Dove andrete?" le chiesi.
"In Europa" replicò Janine tirando su col naso.
Le passai la scatola di fazzoletti che c'era sul comodino e lei ne prese uno.
"La visiterete tutta? Quanto starete via?"
"No, solo le città principali dell'Europa occidentale. Staremo via per quasi un mese."
"Sono sicura che sarà bellissimo."
Janine annuì con sguardo assorto. "Grazie. Avevo proprio bisogno di una chiacchierata come questa."
Le rivolsi un sorriso sincero, uno dei pochi degli ultimi tempi. "Quando vuoi."

Mia madre si era sempre occupata di me e della casa. Nient'altro. Pensava poco a se stessa, in quanto la priorità ero io, sua figlia. Capii troppo tardi come mai si era sempre comportata in quel modo. All'inizio credevo fosse normale essere messi al primo posto dalla propria madre in tutto e per tutto, ma quando iniziai ad andare al liceo mi ricredetti.
Lei aveva sofferto molto a causa dell'abbandono di mio padre, ma non l'avevo mai vista piangere per lui. Il suo dolore si limitava a sguardi persi nel vuoto una volta ogni tanto. Non l'avevo mai sentita parlare di lui, tranne quell'unica volta in cui mi raccontò la loro storia, e non lo nominava mai nemmeno quando telefonava ai miei nonni. Aveva soltanto me, e questo era il motivo per cui io venivo prima di tutto il resto. Anche prima della sua vita privata.
La rottura con mio padre l'aveva distrutta e io, chiusa in quella camera d'albergo con Janine a bere champagne, non potei fare a meno di chiedermi se avrei fatto la stessa fine di mia madre. Ed ero sicura di sì: stavo male, ero triste e depressa e mi mancava Trevor.
"Ne vuoi ancora?" Janine non aspettò una mia risposta e mi riempì il bicchiere.
Tornai con i piedi per terra e osservai la bottiglia che teneva stretta.
"Ubriacarsi la sera prima del tuo matrimonio non è una grande idea" le feci notare senza riuscire ad ignorare il mio bicchiere di champagne. Trangugiai il liquido ambrato in un attimo sorprendendo Janine.
"Io non mi sto ubriacando, è solo il secondo bicchiere. Tu, invece..." Lasciò la frase in sospeso e io alzai le spalle. Non sapevo cosa dire.
"È tutto okay?" mi domandò con cautela.
Annuii con enfasi, ma poi me ne pentii: la testa iniziò a girarmi così forte che dovetti sdraiarmi sul letto.
"È buonissimo quello champagne." Indicai la bottiglia che Janine aveva appoggiato sul comodino.
Voltai la testa verso di lei, seduta a gambe incrociate di fianco a me, nello stesso posto dove avrebbe potuto esserci Trevor. Trevor, che non vedevo da più di un mese. Percepii una fitta al cuore e mi imposi di non pensare a lui, ai suoi occhi, alle sue mani, alla sua risata.
"Haylee!" Janine mi passò una mano davanti agli occhi per attirare la mia attenzione. "Ti eri persa?"
"Scusami, ero sovrappensiero."
Lei mi guardò aggrottando le sopracciglia. "Ti conosco da diversi anni, e so che c'è qualcosa che non va. Ne vuoi parlare?"
Non risposi.
"È dal giorno dell'assaggio delle torte che ho visto che sei cambiata. Dominic ha a che fare con questo?" Alzò una mano indicandomi.
Non volevo parlare di lui, e nemmeno di Trevor. Dovevo smettere di pensare.
"Haylee, sono il tuo capo, ma anche tua amica. Tu hai aiutato me, e io ora voglio fare la stessa cosa per te."
I miei occhi si riempirono di lacrime, che cercai di trattenere a lungo. Guardai Janine con la vista annebbiata e, quando mi rivolse un sorriso rassicurante, crollai.
A fine serata, il dottor Barnes non era più l'unico a sapere di Trevor.

Life - Ricominciare a vivereWhere stories live. Discover now