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Salutare Brad, Anaru e Michael si rivelò più difficile di quel che pensavo. Non volevo piangere, lo avevo promesso a me stessa; però qualche lacrima era scesa lo stesso. Mi ero affezionata tanto a loro tre durante le due settimane trascorse in Polinesia, e lasciarli mi rendeva un po' triste.
"Grazie per tutto quello che avete fatto per me." Appoggiai il borsone a terra e abbracciai ognuno di loro.
"Siamo felici di averti conosciuta, Haylee." Brad mi strinse a lungo.
"E io sono felice di avervi incontrato." Passai ad Anaru, al quale diedi un casto bacio sulla guancia. "Potete venire a Waterbury quando volete. Sarete miei ospiti."
"Verremo sicuramente" replicò Anaru.
"Conosco un posto dove insegnano ad andare a cavallo."
"Sì, papà! Ci voglio andare." Michael mi strinse le gambe in un piccolo abbraccio.
"Appena potremo ci andremo." Brad estrasse il suo cellulare dalla tasca e memorizzò il mio numero.
"Ci sentiamo presto." Anaru agitò una mano mentre mi allontanavo per imbarcarmi sull'aereo.
"A presto!"

Non ero mai andata a trovare mio padre. Cioè, quello che credevo fosse mio padre. Casey Reed era un importante chirurgo dell'ospedale di New York. Questo era tutto ciò che sapevo. Non ricordavo nemmeno il suo viso.
Varcando la soglia dell'entrata dell'ospedale, non potei fare a meno di chiedermi che aspetto avesse Casey e per quale motivo avesse continuato a versare dei soldi nel mio conto bancario. All'inizio pensavo che lo facesse per via del senso di colpa per aver abbandonato me e mia madre, ma ora non ne ero più tanto sicura.
Mi avvicinai alla reception, dove una donna di mezza età controllava dei moduli.
"Buongiorno, come posso aiutarla?" disse con lo sguardo fisso su un foglio.
Presi un respiro profondo. "Sto cercando il dottor Casey Reed."
Incrociai le dita sperando che fosse di turno.
"Ha un appuntamento per una visita?" La donna prese un'agenda da un cassetto e la sfogliò rapidamente.
"No, devo parlare con lui. Può dirgli che Haylee è qui?"
Alzò lo sguardo su di me, fissandomi con i suoi occhi scuri, poi prese il telefono e mi fece cenno di aspettare. Pochi minuti dopo, un uomo alto e magro si presentò davanti al bancone della reception.
Mi si formò un nodo allo stomaco, mentre l'ansia teneva la mia gola stretta in una morsa.
Capii subito che quell'uomo era Casey grazie al tesserino appuntato al camice bianco e perfettamente stirato, però lui non mi riconobbe. Mi guardò distrattamente, e fu come un pugno allo stomaco. Non sapevo nemmeno spiegarne il motivo.
Guardò l'infermiera alla reception che fece un cenno nella mia direzione. Allora lui concentrò la sua attenzione su di me.
"Haylee?" Mi fissò stupito e perplesso al tempo stesso.
"Ciao." Cercai di essere gentile, ma la mia voce risultò un po' fredda.
"Cosa ci fai qui?" Infilò le mani nelle tasche del camice, visibilmente a disagio.
"Ho bisogno di parlarti. Hai qualche minuto a disposizione?"
Lui annuì, facendomi segno di seguirlo. Non mi portò nel suo ufficio come immaginavo, bensì nella mensa dell'ospedale. Siccome era ancora un po' presto per pranzare, non c'era nessuno seduto ai tavoli.
"Posso offrirti qualcosa? Acqua, caffè, succo di frutta?"
"Del caffè andrà benissimo."
Dopo che un ragazzo ci servì, prendemmo posto ad un tavolino vicino a una finestra. Tra me e Casey si era creato un silenzio strano. Non era proprio imbarazzante, piuttosto qualcosa di teso che mi mise più a disagio.
Mentre ero in aereo, avevo elencato mentalmente tutte le domande che volevo fargli, ma ora non ricordavo più niente.
"Cosa ti porta qui a New York?" esordì per primo, facendomi provare un certo sollievo.
In realtà, però, una parte di me era delusa perché non mi aveva chiesto nulla sulla mia vita. Come stavo, cosa facevo, dove lavoravo. Era arrivato direttamente al nocciolo della questione. Pensai che forse non era per niente contento di vedermi.
Aprii la bocca, pronta per esprimere a voce alta i miei pensieri, ma lui proseguì.
"Sono davvero sorpreso, non mi aspettavo di vederti. A dire la verità, credevo che non ti avrei più rivista." Si appoggiò allo schienale della sedia cercando di sembrare più rilassato. "Sei cresciuta e sei diventata una donna bellissima. Proprio come tua madre."
"Sono venuta qui a causa sua."
Lui mi fissò perplesso. Più lo guardavo, più mi accorgevo di quanto fossimo diversi: io avevo gli occhi grigi e lui verdi, i miei capelli corvini erano in contrasto con i suoi rossi e la sua pelle bianca come il latte non aveva nulla a che fare con la mia carnagione più rosea. E poi tutti i lineamenti definiti e spigolosi di Casey erano diversi dai miei. Era ovvio che non fossi sua figlia.
"Sta bene?" domandò subito.
"Sì, sta bene." Non sapevo come continuare; volevo trovare un modo per indorare la pillola, per essere meno brusca, ma non sapevo come fare. Così presi coraggio, limitandomi a dire quello che pensavo.
"Ho scoperto che non sei mio padre" dissi, stringendo forte la tazza ancora piena di caffè.
Casey mi guardò dispiaciuto, accentuando le rughe sulla fronte e intorno agli occhi. "Te l'ha detto lei?"
Scossi la testa. "No, l'ho scoperto mentre parlava con il mio vero padre. È per questo che sei andato via, vero? Perché ti aveva tradito."
"Mi dispiace tanto." Sospirò, poi si protese, appoggiando le braccia sul tavolo. "Amavo moltissimo tua madre, ma quello che aveva fatto... Era un periodo difficile per noi: io facevo avanti e indietro tra Waterbury a New York e lei stava sempre a casa a occuparsi della fattoria. Adorava farlo, ma ogni volta che andavo via lei era sempre più triste, e quando tornavo sempre più distaccata.
"Un giorno ricevetti una chiamata dall'ospedale: dovevo rientrare perché un ragazzo aveva urgente bisogno di un trapianto di cuore. Dovevo occuparmi dell'operazione. Tua madre non fu felice della mia partenza, così quella sera andò in un bar, dove incontrò un uomo. Passarono la notte insieme e, tre settimane dopo, scoprì di essere incinta. Si sentiva in colpa e mi raccontò la verità. Provai a perdonarla, ma quando tu nascesti..."
Si schiarì la gola e bevve un sorso di caffè.
"Cavolo, eri la cosa più bella che avessi mai visto... ma anche la più dolorosa. Ogni volta che ti guardavo, ricordavo quello che aveva fatto Joanne, ma soprattutto diventavo sempre più consapevole di quello che mi aveva tolto. Volevo un figlio con lei, uno nostro, ma diceva sempre di non sentirsi pronta. Avrei voluto essere più forte. Nel giorno del tuo secondo compleanno, capii che non potevo più stare con voi: non potevo permettere che tu crescessi in un ambiente dove io e tua madre litigavamo in continuazione. Così, per il tuo bene, decisi di andarmene."
"Ho sempre creduto di non contare nulla per te" ammisi con gli occhi lucidi.
Vedevo il suo dolore, la sua sofferenza, il suo rimpianto. Tutto.
"No, Haylee. Ti ho sempre voluto bene. Chiamavo tua madre regolarmente per sapere come stavi."
"Davvero?"
Casey annuì con enfasi. "Sì, fino a qualche anno fa. Quando sei andata a vivere con il tuo ragazzo, tua madre mi ha detto di non chiamarla più."
"Perché?" sussurrai, sconvolta dalla richiesta che mia madre aveva fatto a quell'uomo.
"Non lo so. Ho provato più volte a chiederglielo, ma non ha mai risposto."
"Mi dispiace." Mi decisi a bere un po' di caffè prima che diventasse freddo. "E il mio conto bancario?"
Sorrise orgoglioso. "L'ho aperto il giorno in cui me ne sono andato. Volevo garantirti un futuro anche se non ero con te."
Una lacrima mi rigò la guancia, ma stavolta non era dolore quello che sentivo, bensì gratitudine. Io ero sempre stata nei suoi pensieri, lui non si era mai dimenticato di me.
"Grazie." Il rancore che per anni mi aveva fatto compagnia stava diminuendo lentamente.
Casey mi prese le mani, stringendole delicatamente tra le sue. Nei suoi occhi vedevo un'emozione così forte che mi fece sentire un po' sollevata.
"Hai impegni stasera?"
"No, non ne ho." Sorrisi felice.
"Vorresti conoscere mia moglie?"
Abbassai lo sguardo sulle sue mani, dove sull'anulare sinistro spiccava una fede dorata.
"Lei sa di me?" Fu la prima cosa che chiesi. Non volevo turbare la sua famiglia; probabilmente avevo sconvolto lui stesso presentandomi lì senza preavviso.
"Sì." Mi guardò sereno, facendomi sentire il cuore più leggero.
Non pensavo che questa conversazione sarebbe filata così liscia; non mi aspettavo che Casey si dimostrasse così disponibile.
Questo confermava ulteriormente che non lo conoscevo affatto.

Il taxi si fermò davanti a una villetta bianca circondata da un giardino curato, e io ebbi voglia di andarmene. Avevo controllato più volte l'indirizzo che mi aveva dato Casey per essere sicura di trovarmi nel posto giusto. E lo ero.
Una strana agitazione si diffuse nel mio corpo, rendendomi inquieta e facendomi sentire triste.
Mentre scendevo dalla macchina, la porta d'ingresso si aprì e Casey si incamminò sorridente lungo il vialetto.
"Ciao" lo salutai, andandogli incontro.
Mi diede un rapido abbraccio, poi mi fece strada. "Felicia non vede l'ora di conoscerti."
Le sue parole mi sorpresero. Chi poteva essere così entusiasta di conoscere la figlia – o quasi – del proprio marito? Una parte dolorosa del suo passato. In realtà ero una perfetta estranea per Casey; non capivo come poteva volermi.
"Aspetta." Mi bloccai a pochi passi dalla porta.
Lui mi guardò confuso e preoccupato.
"Prima voglio sapere una cosa: perché mi tratti come se fossi tua figlia?" Mi passai una mano su i capelli.
Cavolo, non riuscivo ad esprimermi come volevo e mi sembrava di dire sempre la cosa sbagliata.
"Perché ti voglio bene."
Le sue parole mi fecero venire le lacrime agli occhi. "Come puoi dirmi una cosa del genere?"
"Haylee..."
La bambina arrabbiata che credevo fosse scomparsa si fece strada dentro di me.
"Ogni compleanno speravo che tornassi da me. Volevo mio padre e tu non arrivavi mai. Eri qui, con la tua nuova famiglia, mentre io speravo che tornassi da me."
Gli occhi di Casey diventarono lucidi. "Sono stato uno stupido egoista e mi odio per questo. Non ho scuse."
"Fino a poco fa credevo di aver superato tutto questo, ma..." mi interruppi guardando la casa alle sue spalle. "Come posso dimenticare da un momento all'altro che mi hai abbandonato? Avevo bisogno di te anche se non eri il mio vero padre."
"Haylee, mi dispiace così tanto."
"Se tu vuoi fare parte della mia vita, cercherò di essere comprensiva, ma non posso entrare in quella casa ora. Non posso conoscere la tua famiglia, mentre la mia..." Un singhiozzo mi impedì di proseguire.
Mi sentii stupida per aver pensato che tutto potesse aggiustarsi con una semplice chiacchierata davanti ad un caffè. Qualche ora prima credevo di aver sistemato una parte importante della mia vita; pensavo di aver inserito nel posto giusto un altro pezzo di un puzzle. Ma non poteva essere così facile. Mi ero illusa. Quando il taxi si era fermato davanti alla casa di Casey, avevo capito di aver bisogno di più tempo. Solo così tutto si sarebbe sistemato.
"Mi dispiace, non posso." Mi sistemai la borsa in spalla, facendo un passo indietro.
"Sono io che devo scusarmi, non tu. Mi dispiace per essermene andato via, per non esserci stato e per essere stato così stupido ed egoista. Spero che riuscirai a perdonarmi un giorno." La sua voce era rotta dall'emozione. Era la prova del suo pentimento. Almeno credevo.
"È meglio che rientri." Feci un sorriso forzato e con la testa indicai la porta alle sua spalle.
"Tu dove andrai?"
"All'aeroporto. È ora di tornare a casa." Dovevo riprendere in mano la mia vita.
Casey infilò la mano in una tasca dei jeans, estraendo le chiavi della macchina.
"Lascia che ti accompagni."
Afferrai il borsone che avevo appoggiato per terra. "Chiamerò un taxi, non preoccuparti."
Mi voltai verso la strada, guardando nella direzione in cui era scomparso il taxi che avevo preso per arrivare fin lì.
"Ti prego, voglio farlo" mi implorò con occhi tristi.
Annuii appena, poi lo seguii fino alla sua auto.
Quando arrivammo all'aeroporto, tra noi si era creato un silenzio teso. Casey accostò a lato della strada, vicino all'ingresso, poi mi guardò. I suoi occhi erano diversi dai miei, eppure mi sembravano famigliari.
"Haylee," esordì con voce sicura, "vorrei fare parte della tua vita da adesso in poi. Vorrei farmi perdonare tutti questi anni di assenza. So che non sarà facile, ma voglio farlo. Anche se non sono tuo padre, vorrei che tu facessi parte della mia vita."
"Ho bisogno di tempo" ammisi a bassa voce. "Non posso fingere che tutto questo non sia successo."
"Lo so, e non ti sto chiedendo questo. Quando ti sentirai pronta, io sarò qui."
"Va bene." Lo abbracciai a lungo, poi me ne andai.
Lo lasciai lì, in macchina, da solo, mentre io tornavo alla mia vita.

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