10- Non è mai troppo tardi, anche se sono passati cinque anni.

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"Dottoressa, mi scusi. La cerca il dottor Cataldo, è qui per un paziente" sapevo benissimo che questo momento sarebbe arrivato ma non pensavo così presto. Non avevo raccontato nulla a Marco di ciò che era successo nelle ultime settimane, non che lui fosse molto interessato, ma ora era lì e io sarei voluta solamente scappare.

"Grazie Cecilia, digli pure che ora arrivo" ringraziai l'infermeria per poi fare un grosso respiro e successivamente sistemare il camice uscendo dal mio ambulatorio. Stavo sperando con tutta me stessa che il paziente non era chi pensavo, perché se era lì significava che la situazione era peggiorata. Ma mi bastó un attimo per incontrare quei due volti che conoscevo, purtroppo, molto bene.

"Quanto è grave?" Dissi soltanto nel momento in cui mi trovavo a pochi passi da Marco. Se aveva fatto spostare una famiglia da Milano a Roma, la situazione non poteva avere niente di positivo.

"Tanto Sà, se sono qui è perché possiamo salvarlo solo io e te insieme" lui mi guardò con sguardo compassionevole. Non capivo se stava cercando di chiedermi un favore oppure si era reso conto di aver fatto un gesto che era assolutamente da evitare.

"Hai già fatto abbastanza, non credi?" Il mio tono era tagliente eppure non riuscivo ad essere comprensiva con lui in quel momento. Sarebbe spettato a me parlare con i genitori e non potevo far altro che continuare a dargli notizie negative, mentre loro continuavano ad aggrapparsi a quel briciolo di speranza che ancora avevano.

"Hai voglia di litigare ancora?" Lui mi tiró dentro il mio ambulatorio chiudendo poi la porta. Avevo massima fiducia in Marco e nel suo lavoro ma stavolta si era lasciato trascinare troppo dalla razionalità.

"Mirko è un bambino di cinque anni con osteosarcoma. Sapevi benissimo cosa comportava quell'intervento" lui sbuffó sedendosi su una sedia e mettendosi le mani tra i capelli, e lo conoscevo abbastanza da poter affermare che si stesse innervosendo fin troppo.

"Si, lo sapevo. Ma non c'era il tempo e te l'ho anche spiegato. Ho dato tutta la mia vita per questo lavoro e so cosa devo fare" io mi limitai ad alzare gli occhi al cielo. Non avevo la minima idea di come riuscire a salvare quel bambino, nonostante avessi sotto mano la cartella clinica che mi aveva portato Marco.

"Non esiste soltanto il lavoro, Marco"  dissi sedendomi sulla mia sedia e non alzando lo sguardo dal fascicolo.

"Quindi adesso non si tratta più di Mirko, si tratta di noi, vero?" Io soltanto in quel momento trovai il coraggio di alzare lo sguardo notando che lui aveva già gli occhi fissi su di me.

"Non possiamo andare avanti cosi, da quando sono venuta a Roma hai perso un qualsiasi tipo di interesse, quelle poche volte che riusciamo a sentirci parliamo soltanto di pazienti o finiamo per litigare. Non voglio più vivere un 'amore in corsia', ma tu sei disposto a lasciare un po' la corsia per me?" Dissi il tutto con gli occhi lucidi. Il sentimento da parte mia c'era ancora anche se dentro di me sentivo che pian piano si stava affievolendo e allo stesso tempo con lui avevo condiviso tre anni della mia relazione, era pur normale che mi dispiacesse.

"Ho dato tutta la mia vita per questo lavoro" io annui semplicemente con il rammarico dipinto in volto mentre tornai poi con gli occhi sulla cartella del bambino. Lui si alzó attirando di nuovo il mio sguardo su di lui.

"Ti passo a portare le ultime tue cose e poi torno a Milano. Sii felice, Sà" lui uscì dalla stanza lasciandomi da sola, io misi la testa tra le mani lasciando che una lacrima solitaria scivolasse lungo il mio viso. Ci tenevo a lui e sapere che ciò che provavo non era ricambiato non mi faceva stare per niente bene.
Ma nonostante tutto, avevamo un progetto in partenza e un paziente da curare. E a prescindere da ciò che diceva il cuore, non avrei mai abbandonato quei bambini alle tristi sorti.

Te dimmi dove sei, mi faccio tutta Roma a piedi. - UltimoWhere stories live. Discover now