Capitolo 33

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6 marzo;

Le cose vanno bene, tra me ed Elijah, con lo studio, il lavoro e specialmente nella mia testa. Oggi è sabato, siamo in macchina e a momenti inizio ad urlare. Elijah guida indisturbato mentre nella mia testa sento mille voci che mi dicono mille cose confuse, opposte e che io stessa non riesco a capire.

«Stai facendo un casino.» Elijah mi riporta alla realtà mentre ferma la macchina al semaforo.

«Che?»

«A cosa stai pensando?» Chiede, il casino a cui si riferisce è quello dentro la mia testa. «Se hai cambiato idea possiamo anche tornare indietro.»

«No, no assolutamente.» Lo freno, non voglio che pensi questo. «Sono solo agitata.»

«Ti adoreranno.» Prova a rassicurarmi ma non ci riesce così tanto.

«Certo.» Sbuffo nervosamente, poggiando la testa al finestrino.

«Ehi..» si sporge verso di me e mi costringe a guardarlo. «Ti assicuro che già gli piaci, poi l'importante è che sono io ad amare te.» Mi bacia ma subito si stacca quando le macchine dietro di noi iniziano a suonare il clacson. Stiamo guidando verso Holmes Chapel, mi ci è voluto un po' per dirgli di sì e spero ne sia valsa la pena. Il pensiero di incontrare la sua famiglia non mi agita più di quanto lo faccia il pensiero che delle persone, tra qualche ora, mi giudicheranno. Vorrei fare una bella impressione e mi auguro che non esca fuori la mia parte impacciata. Non li ha avvertiti subito, ha aspettato qualche giorno prima di chiamarli perché pensava che avrei cambiato idea. A dirla tutta era lui quello tentato ad disdire, ultimamente sono stata male e ha fatto di tutto pur di farmi riposare. Ho avuto una brutta influenza e tra febbre, vomito e nausea non sono riuscita a muovermi dal letto per una settimana e mezza, quasi due. Talmente è testardo che un giorno si è alzato ed è andato a parlare con il rettore Davis al posto mio. Il risultato? Ora lavoro solo il lunedì e il mercoledì e un po' mi sta bene. Abbiamo litigato, questo era inevitabile, poi però mi è passata quasi subito.

Abbiamo appena superato Wolverhampton quando decidiamo di fermarci per mangiare qualcosa. C'è una piccola tavola calda proprio lungo la strada, è piccola e secondo me funge più da area di servizio.

«Cosa prendi?» Mi chiede guardando sul mio stesso menù.

«Ho voglia di patate fritte.» Ammetto sentendo quasi l'acquolina in bocca, forse sono mesi che non ne mangio.

«Prendi anche della carne, sei pallida in viso.»

«Grazie, è una caratteristica dei Cullen.» Scherzo alzando gli occhi al cielo.

Pranziamo tranquillamente, mi chiede un po' troppe volte se sto bene, io rispondo sempre che è tutto okay e quando abbiamo finito ci rimettiamo in viaggio. Mi addormento e lo faccio fino a quando non è Elijah a svegliarmi per dirmi che siamo quasi arrivati.

«Tua sorella vive con loro?» Chiedo provando a fare un quadro generale; fin'ora non gli ho mai chiesto nulla perché solo toccare quest'argomento mi mette ansia.

«Sì, ha la tua stessa età.»

«Sul serio?»

«Sì, tu sei più grande di cinque mesi.» Annuisco sorpresa, credevo fosse più piccola di me. «I miei l'hanno avuta quattro anni dopo la mia adozione.»

«Posso chiederti perché sei stato adottato?»

«Erano disoccupati, non sposati e i genitori non volevano.» Spiega come se fosse la spiegazione più ovvia al mondo. «Emma è nata qualche giorno dopo il loro matrimonio.»

«Hanno continuato a stare insieme?»

«Certo e tutt'oggi spruzzano affetto da tutti i pori. Sono un po' tremendi sotto questo punto di vista.» Ride fermando finalmente la macchina. Guardo il quartiere che ci circonda, le luci accese nelle case fanno da soffusa illuminazione per gli esterni. La casa alla nostra destra è quella dei suoi genitori, non molto grande e circondata da fiori di ogni genere.

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