26. Bisnonna Silvia, sei eterna

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ALBA
Roma, inverno.







Questo capitolo lo dedico ai nonni.
A tutti i nonni del mondo.
Le anime più pure della Terra, assieme ai bambini.
Che siate benedetti sempre.















Quella mattina, a Roma, il cielo era grigio, costellato da nuvoloni che minacciavano pioggia.

L'insegna del ristorante si confondeva con la foschia. Fabio, di fronte a me, si era appena versato un calice di vino.

Fabio aveva dei folti capelli neri, sistemati e ordinari, un paio di occhi scuri e il fascino da ragazzo che studia giurisprudenza.

Proveniva da una buona famiglia della borgata romana e si presentava sempre ben vestito, con i suoi completi firmati, il suo orologio da milioni di euro e un paio di occhiali da Sole abbinati alle scarpe all'ultima moda. Le nostre amiche dicevano che assieme sembravamo la coppia perfetta: belli e vincenti.

Con lui andavo d'accordo. Era bello, interessante e sapeva scherzare. Era di compagnia, se così si può definire. Litigavamo poco, ma quando lo facevamo io ero sempre quella nel torto. A quanto pareva, la sua indole da avvocato lo portava a voler ragione in qualsiasi campo, persino quello dell'amore. Ovviamente. Eppure era lui a scusarsi, sempre.

Con i miei andava d'accordo. Li aveva conosciuti un anno dopo dall'inizio della nostra relazione. A mio padre non interessava più di tanto, non prediligeva le persone come Fabio, quelle con le solite conversazioni da fare e poco pratici. Ma, per me, provava a sforzarsi ad essere felice, provava a credere che io fossi felice di nuovo.  

Alzai il mento dopo aver finito di chiedergli un'opinione sulla mia tesi finale, «Fabio, mi stai ascoltando?», mormorai, vedendo che tutta la sua attenzione era rivolta al cellulare.

«Mh?», disse, troppo occupato a cliccare dei tasti sul display, «Come dici, amore?».

Scossi il capo, riabbassai lo sguardo, torturando un pezzo di carne con la forchetta, «No, niente, lascia stare.»

Lui annuì, si pulì la bocca velocemente e prese un sorso di vino. «Comunque, mio padre mi ha assegnato un piccolo caso da seguire», io poggiai la guancia sul palmo della mano, lo ascoltai scocciata — come ogni volta —, «Se ti raccontassi tutta la vicenda scoppieresti a ridere.»

E, mentre lui mi elencava l'assurdo caso che gli aveva affidato il padre, avvocato, il mio cellulare squillò. Era una chiamata da parte di mio padre. Pensai: grazie a Dio qualcuno mi pensa sul serio.

Mi scusai con Fabio e portai il cellulare all'orecchio. «Papà? Dimmi...»

«Sono la mamma», mormorò, un po' sottotono, tirò su con il naso. «Puoi tornare a casa?»

Mi accigliai. «Tutto bene? Cos'è successo? Papà?»

«Non si sente molto bene. Dobbiamo parlarne con te», mormorò, «Alba, è una cosa abbastanza importante. Ti prego, torna a casa in fretta.»

«Sì... okay, sto arrivando», farneticai. Fabio mi fissò sconcertato, «A tra poco.»

Mi alzai da tavola, «È successo qualcosa?», chiese, allarmato.

«Mi sa di sì», dissi, con frenesia, «Devo andare, mamma sembra agitata e preoccupata», infilai il cappotto pesante, il cellulare tra le dita.

«Vuoi un passaggio?».

«No, tranquillo, prendo il tram. Ci sentiamo dopo», gli diedi un bacio veloce sulle labbra, mi pizzicò la sua leggera barba curata. 

«Fammi sapere.»

Domani sarò albaWhere stories live. Discover now